di Gabriele Pazzaglia
Ha fatto molto discutere il tentativo del Movimento 5 Stelle di entrare nell’ALDE (Alleanza dei Democratici Europei), il gruppo parlamentare liberale del Parlamento Europeo.
Il Movimento 5 Stelle ha, con brevissimo preavviso, lanciato una consultazione tra i suoi iscritti i quali hanno deciso, l’8 gennaio 2017 per l’iscrizione all’ALDE 31.914 (78,5%) contro i 6.444 (15,8) per restare nel gruppo EFDD (Europa della libertà e democrazia diretta) il gruppo più puramente anti-europeista del panorama politico. I restanti 2.296 (5,7%) per andare nei non-iscritti.
Ma poco dopo è arrivato il rifiuto da parte dell’ALDE. Il commento pubblico che è seguito a questo inaspettato passaggio politico, invece di precisare ed approfondire il significato e le conseguenze delle scelte, ha alzato un polverone che è giusto dissipare precisando alcuni dettagli molto importanti.
Cosa è l’ALDE?
Molti hanno sottolineato l’incoerenza politica del Movimento 5 Stelle che ha tentato di passare dal gruppo più anti-europeista (per capirsi, quello con gli indipendentisti nazionalisti di destra britannici che hanno raggiunto il loro obiettivo di uscita della Gran Bretagna) ad uno dei raggruppamenti che, viceversa, ha storicamente più supportato l’integrazione europea. È vero, è una critica fondata. Ma c’è di più: l’ALDE, a differenza del gruppo di Farange, non è solo un’opinione sull’Europa. L’ALDE è anche un raggruppamento di politici liberali in campo sociale e civile (per la libertà sessuale, di aborto, eutanasia, matrimonio per tutti, integrazione degli immigrati regolari) ed anche – e forse soprattutto – un partito liberista in campo economico. Nel suo manifesto politico si leggono chiare parole a favore della libertà economica della quale sono sempre stati paladini i partiti che lo compongono: considerano coerentemente in modo favorevole l’idea degli accordi commerciali con gli USA e il Canada (il primo, il famigerato TTIP, congelato dal nuovo presidente, il secondo definitivamente approvato), l’euro, e il patto di stabilità (e il relativo fiscal compact). Tre cose che il Movimento 5 Stelle, nella sua confusa politica economica e anti-europeista, ha sempre considerato come la causa di tutti (o molti) i mali dell’Italia e non solo.
Dunque, su quali basi sarebbero stati insieme questi partiti? Sul niente, o quasi. Come sembrano confermare loro stessi. Dopo il rifiuto dell’ALDE al passaggio del movimento di Grillo nel proprio gruppo, è stata pubblicata una foto del testo dell’accordo preliminare tra le due formazioni politiche. Il testo è in inglese, ma non è necessaria una completa traduzione per trarne il significato: l’accordo sembra essere solo e puramente organizzativo: regole sulla proposizione di emendamenti, sui portavoce, sui coordinatori, il tempo di parola in aula, la distribuzione deli uffici. Gli unici punti politici sono la garanzia per il M5S di poter formare un sottogruppo identificabile, e l’appoggio a presidente del gruppo Guy Verhofstadt per l’elezione a Presidente del Parlamento Europeo.
Soldi, posti e voti: ecco l’accordo prematrimoniale sulla roba tra Verhofstadt e Grillo. pic.twitter.com/PX7HIjd1sy
— David Carretta (@davcarretta) 9 gennaio 2017
Il testo è stato smentito dal M5 che ha detto essere un documento interno all’ALDE. Sembra strano che, i pentastellati non ne sapessero niente o che fossero contrari visto che gli accordi vincolano tutti quelli che li sottoscrivono e che tra i pochi nomi della nuova organizzazione spuntava il nome di David Borrelli, il negoziatore per il M5S, già co-presidente del gruppo parlamentare con Farage. Borreli comunque sostiene che con l’ALDE ci fosse solo un «preaccordo» che avrebbe dovuto ratificare «la rete» ovvero, più prosaicamente, gli iscritti al partito. Preaccordo che, stando al testo della chiamata al voto , prevedeva 4 punti: 1. «democrazia diretta, trasparenza, libertà, onestà»; 2. «totale e indiscutibile autonomia di voto» [grassetto del blog]; 3. «partecipazione dei cittadini nella vita politica delle Istituzioni europee» che è difficile capire cosa sia oltre alle elezioni e agli altri strumenti (petizioni e consultazioni) già previste; 4. «semplificazione dell’apparato burocratico europeo, la risoluzione dell’emergenza immigrazione [grassetto del blog] con un sistema di ricollocamento permanente; la promozione della green economy e lo sviluppo del settore digitale e tecnologico con maggiori possibilità occupazionali».
Un accordo che brilla per vaghezza, quindi. E che ha ben in rilievo l’autonomia di voto che, certo, è componente essenziale dei singoli parlamentari nelle democrazia rappresentative, ma che, all’interno di un gruppo parlamentare deve essere l’eccezione, la valvola di sfogo che permette di mantenere l’unità di indirizzo, andando divisi su singole questioni. Se diventa la regola, il gruppo è una mera finzione.
Davanti a questo si rimane stupiti soprattutto dai vertici, i leaders, dell’ALDE: politici europei di lungo corso, con ideali che sembravano chiari, che accettano di andare insieme con chi non somiglia loro in nulla. Non è un caso che l’accordo sia stato rigettato dai componenti del gruppo.
Le reazioni. Di Maio: “una scelta tecnica”.
La risposta ufficiale del partito è improntata alla consueta pacatezza : «l’establishment ha deciso di fermare l’ingresso del MoVimento 5 Stelle…Abbiamo fatto tremare il sistema come mai prima». A colpo d’occhio la toppa è peggio del buco: invece di rispondere, come era possibile, dignitosamente, dicendo “peccato, secondo noi c’erano le condizioni per un progetto politico comune ma grazie e arrivederci”, si è preferito fare come la solita volpe con la irraggiungibile uva e alludendo ad una specie di complotto totale per danneggiare loro, i grillini, e – ovviamente – i cittadini. Così sono degni di essere bollati come «establishment» brutto e cattivo quei deputati dell’ALDE con i quali il M5S avrebbe voluto lavorare insieme dal giorno dopo. Delle due l’una, quindi: o è davvero così, e allora il M5S ha dialogato, trattato e chiesto di entrare proprio nell’«establishment», oppure, semplicemente, oggi il M5S mente e non c’è nessun «establishment», nessun complotto, ma solo deputati che legittimamente hanno espresso un voto contrario credendo, così di rappresentare nel migliore dei modi i cittadini che li hanno votati e gli ideali per i quali sono stati eletti.
Tra le varie reazioni, quella del vicepresidente della Camera dei Deputati Di Maio, è degna di nota, purtroppo in negativo: ha sminuito la scelta di confluire nell’ALDE come mera «appartenenza tecnica», cioè ha negato ci fosse un serio impegno politico comune, ammettendo solo uno strumento per sfruttare al massimo i benefici (che preciseremo più avanti) che il regolamento del Parlamento Europeo mette a disposizione dei gruppi parlamentari e non dei singoli deputati: dunque, un trucchetto, un escamotage.
Sono parole che sono passate in sordina nel dibattito, quasi fossero una giustificazione plausibile ad una situazione (in)volontariamente pasticciata. Invece sono parole importanti, serie, e soprattutto sbagliate perché sono contrarie alle regole del Parlamento europeo. In esso possono esistere solo gruppi politici veri, reali, di sostanza, e non fittizi, così come ha definitivamente stabilito il Tribunale dell’Unione nel 20011 e soprattutto hanno fondamentali prerogative parlamentari, cioè la possibilità concreta di influenzare le decisioni. E proprio per queste ultime il Tribunale stabilì che i gruppi fittizi dovevano essere vietati. Il motivo è ovvio se si conosce come vengono approvate le norme nell’Unione: deve essere approvata nello stesso testo dal Parlamento Europeo (eletto direttamente dai cittadini) e dal Consiglio dei Ministri dell’Unione (cioè i governi degli Stati). Per tale risultato sono fondamentali i gruppi e i partiti, di modo che gli argomenti siano razionalizzati e il dibattito guidato nei giusti binari, cioè che vi sia una «organizzazione efficiente dei lavori», che permetta alle varie istanze delle quali i deputati si fanno portatori di sintetizzarsi in «volontà politiche comuni» e sia possibile «l’adozione di compromessi». Senza essi non sarebbe possibile far funzionare nessun sistema e, dice ancora il Tribunale , in particolar modo quello europeo per via «del numero molto elevato di deputati, dell’eccezionale diversità delle culture, delle nazionalità, delle lingue e dei movimenti politici nazionali» e per il fatto che «il Parlamento non è caratterizzato dalla tradizionale dicotomia maggioranza/opposizione». Esso infatti è guidato da decenni da un accordo tra i conservatori (i vari partiti Cristiano-democratici in Europa, e i Socialisti ai quali si è aggregato da ultimo il PD italiano).
Una volta trovato l’indirizzo in Parlamento è necessario che questo sia armonizzato con quello del Consiglio. Quando ciò non avviene con il normale procedimento tali istituzioni creano un «comitato di conciliazione» inviando lì dei loro rappresentanti con il compito di mediare e di trovre un compromesso. Quindi è necessario che i parlamentari nella trattativa godano di un certo margine di manovra. Devono essere «autorizzati a parlare a nome di altri deputati e in grado di essere sostenuti una volta che è stato trovato un accordo». A ciò un gruppo politico può efficacemente contribuire, «a differenza di un gruppo costituito di deputati che non condividono affinità politiche» che, non impegnando i loro compagni permetterebbero di rimettere in discussione ogni accordo infinite volte. Con l’impossibilità del sistema decisionale di funzionare.((Parr. 146 e 149 della sentenza.))
Insomma, il Movimento 5 Stelle, grande (ma non unico) critico del presunto immobilismo europeo ha provato a scardinare proprio quell’organizzazione che serve a far funzionare il meccanismo. E Di Maio, parlando di «apparentamento tecnico» se ha detto il vero, dimostra di non conoscere elementi essenziali dei meccanismi istituzionali dell’Unione, cosa molto grave per il vice-presidente della Camera. E dimostra di aver sostenuto una scelta che avrebbe creato un gruppo dall’esistenza precaria perché se davvero il matrimonio politico si fosse rivelato solo di interesse, senza alcun progetto comune, il gruppo sarebbe stato suscettibile di scioglimento da parte degli altri partiti. Un esito che, sapendo l’acredine tra i deputati europei dei partiti tradizionali e il M5S, era possibile.
L’alternativa è che Di Maio sapesse tutto questo e il suo tentativo di giustificare il partito si risolva in una bugia.
Il Movimento 5 Stelle: un partito. Uno dei tanti.
Uno degli “argomenti identitari” spesso ripetuti dal M5S è il noto “noi non siamo un partito”. Queste scelte europee ci danno l’occasione per dare un contributo, si spera di chiarezza, ad un dibattito spesso ambiguo. Ma è vero che il M5S non è un partito? Per rispondere dobbiamo prima chiederci cosa un partito sia. Ed è più semplice di quanto si pensi: “un gruppo di persone che vuole legalmente conquistare il potere”. Questa è la sua essenza che è confermata da altri elementi: c’è un simbolo, si candida alle elezioni, ha un capo politico, una segreteria (il famoso direttorio), una organizzazione interna (che sia di “meetup”, di sedi di partito o di gazebo) che rende concreta giorno per giorno la corsa verso il potere. Un partito si potrà autoqualificare come Associazione, Alleanza, Unione, Lega (nord), Movimento (5 stelle), Popolo (della libertà), Forza (Italia e Nuova), etc…ma sarà sempre un partito, perché sarà appunto una parte che vorrà «concorrere alla determinazione della politica nazionale» (art. 49 Cost.)((Cfr. Enciclopedia Treccani: «associazione volontaria di un numero più o meno grande di cittadini, con una propria struttura organizzativa, costituita sulla base di una comune ideologia politico-sociale, e avente come obiettivo la realizzazione di un determinato programma, attraverso la partecipazione alla direzione del potere o attraverso la pressione e l’influenza nel governo e nello stato»).
Se poi si conviene che questa diatriba terminologica non è di nessuna utilità pratica, e che è solo un argomento propagandistico, (come questo sito va ripetendo da tempo) allora si può intendere che il Movimento 5 stelle pretenda di essere un partito (molto) diverso dagli altri. Agli elettori giudicare le sue finalità; quel che ci interessa è analizzare se il suo funzionamento concreto è davvero così diverso rispetto ai partiti tradizionali. La principale innovazione (forse l’unica) dovrebbe essere l’utilizzo di internet per concretizzare la democrazia diretta. Il Movimento, è noto, ha lanciato il suo programma Rousseau che dovrebbe in futuro portare all’elaborazione e materiale scrittura delle leggi da parte degli iscritti. Questo portale (accessibile ai soli iscritti) è interessante, perché permette davvero un barlume di democrazia diretta. Cioè, tramite un processo decisionale che parta dalla base, proceda per successive sintesi fino ad diventare una decisione che metta d’accordo la maggioranza. È ancora presto però per verificare quanto l’interazione offerta dal sistema porti ad un vero impatto parlamentare, soprattutto finché il M5S non farà parte di una maggioranza di governo. Adesso si può dire questo: che un sistema così, se preso sul serio, non permette la mediazione parlamentare, pena il “tradimento” della volontà degli iscritti. Il che vuol dire che anche se in aula qualcuno elaborasse una versione della proposta di legge migliore, o che ha maggiori probabilità di raggiungere proprio gli obiettivi del Movimento, gli dovrà essere chiusa la porta in faccia.
Inoltre, i risultati dovranno essere attentamente analizzati. Solo così si potrà capire se in concreto sarà stato un processo decisionale dal basso verso l’alto o se sotto questa forma si è nascosto invece una semplice adesione o meno degli iscritti a proposte sul cui contenuto non si incide. Perché questo è il rischio che il tentato ingresso nell’ALDE dimostra. La scelta del gruppo parlamentare che si è consumata tramite votazione sul blog di Grillo non è stata affatto democrazia diretta, ma una forma di plabiscitarismo che, seppur con mezzi moderni, assomiglia a tante altre votazioni del ‘800 e ‘900: una proposta cioè calata dall’alto e che la base ratifica per mancanza di alternative. Ma questa, a prescindere da come la si chiami, non è democrazia diretta, ed anzi non sembra nemmeno tanto democrazia, ma è il solito schema già conosciuto in passato, di un vertice che usa il voto popolare per legittimarsi, ma che da questo non è vincolato.
Questo meccanismo, che sia vera democrazia diretta, o semplice plebiscitarismo è comunque ai margini della Costituzione, difficilmente compatibile con essa, perché non permette ai deputati quel margine di trattativa che è essenziale in una democrazia parlamentare. La logica del “prendere o lasciare” ha isolato (e reso ininfluente) il M5S più volte da quando è entrato nella scena politica: nella formazione dei governi come nella scelta del Presidente della Repubblica. Il partito invece ha ottenuto risultati, eleggendo un membro del CSM e un giudice costituzionale quando (nel dicembre 2015) ha rinunciato al metodo della votazione e si è comportato come un qualunque partito di rappresentanza parlamentare, mediando con le altre forze politiche a livello parlamentare((Nel suo blog, Grillo parlò di metodo 5 stelle quando quel metodo fu il più tradizionale possibile)). Quando ha rinunciato cioè ad essere sé stesso. Ed oggi, invece, tornando al metodo originario, ha nuovamente messo i suoi eletti, all’oscuro anche della trattativa, obbligandoli a tentare di confluire in un gruppo, per poi tornare a quello di partenza con la coda tra le gambe, e con il marchio di inaffidabili, e causando il (comprensibile) abbandono di due deputati dal gruppo.
Insomma, quello che è successo con la vicenda ALDE-M5S è molto importante, ma per ragioni diverse da quelle che molti hanno detto: indica confusione anche da parte dell’ALDE nella comprensione del fenomeno del M5S. Un partito, quest’ultimo, che nella sua fluidità ideologica e programmatica ha cambiato in corso d’opera le sue finalità, e non di poco: dalla critica spietata (e spesso giustificata) alla classe politica italiana vista come inferiore a quella europea (nel 2012) è passato ad una critica generalizzata all’Europa e soprattutto alla moneta unica (nel 2013), dimenticandosi che a Bruxelles l’Italia manda a decidere gli stessi politici che governano l’Italia. Non si capisce quindi perché a livello nazionale le istituzioni vanno difese (sovranità!) e i politici cambiati, mentre a livello europeo le istituzioni sarebbero tutte sbagliate. E non ha mai sciolto i nodi fondamentali per prendere decisioni in Europa: quanta libertà economica vogliamo e quanto deficit permettiamo. O, nel caso ne chieda un aumento, quale differenza c’è con le istanze del PD renziano, o con la Lega salviniana.
Alla luce di ciò il comportamento contraddittorio dell’ALDE resta grave, spiegabile solo dal fatto che gli altri politici del continente, che legittimamente cercano di ricondurre ogni forza politica alle categorie europee, non comprendendo purtroppo che la differenza con le nostre. Non abbiamo un vero partito conservatore (Forza Italia era una miscellanea con varie anime), non abbiamo un vero partito socialista-laico (il PD, che vi ha confluito recentemente, ha una componente cattolica che lo rende qualcosa di diverso), e non abbiamo (più) un partito liberale per il quale l’ALDE sarebbe la naturale destinazione. E davanti a questa confusione decisioni come questa non ci fanno sembrare meno bizantini.
- Sent. 2 ottobre 2001 nelle cause riunite T-222/99, T-327/99 e T-329/99,).
All’epoca, due partiti nazionali di paesi diversi tentarono di formare, insieme, un gruppo unico: i Radicali italiani e il Front National (sì, quello della Le Pen che oggi è con Salvini nella battaglia anti-europea; proprio con esso, volevano andare Bonino e company). Diedero vita al «Gruppo tecnico dei deputati indipendenti» dichiaratamente solo per sfruttare al massimo i benefici che l’Europa garantisce ai gruppi parlamentari, negando nello stesso atto costitutivo del gruppo alcun impegno politico comune. Scrissero una lettera all’Ufficio di presidenza del Parlamento pensando di aver trovato un facile modo per eludere le regole legalmente ma lo stessa Presidenza (e i capigruppo che la compongono) non si fecero ingannare e sciolsero rapidamente il nuovo gruppo rispedendo tutti i componenti nell’indistinta platea dei non-iscritti. Ma tanto i 7 radicali (Bonino, Pannella, Cappato ed altri) quanto i due del Front National, non si arresero e si rivolsero al giudice europeo. Il Tribunale (primo grado) gli diede torto, e in appello la Corte di Giustizia neanche ammise il ricorso lasciando quindi alle istituzioni europee le motivazioni della sentenza di primo grado. Le quali sono molto precise: la richiesta dei Radicali e il Front National di usufruire dei benefici derivanti dal gruppo politico erano incompatibili con lo stesso sistema istituzionale europeo.
Infatti i gruppi politici concorrono al riparto delle cariche politiche (Presidenti e vice del Parlamento e delle commissioni, posti in queste ultime e nella Conferenza dei Presidenti, che decide l’ordine del giorno), ai contributi finanziari e materiali (il pagamento di personale di segreteria e della loro formazione, di convegni, di pubblicazioni, di traduzione delle riunioni di gruppo, di supporto scientifico per lo studio di singole questioni etc.)((È possibile trovare i bilanci dei gruppi parlamentari su questa pagina del Parlamento Europeo [↩]