di Gabriele Pazzaglia
Il dibattito italiano sugli aiuti europei per la crisi del Coronavirus è stato tanto acceso quanto confuso anche a causa della moltitudine di notizie drammatiche sulla situazione sanitaria. Riepiloghiamo cosa è successo in alcuni passaggi chiave, sottaciuti o completamente ignorati, per capire l’azione delle forze politiche nelle ultime settimane.
Uno dei momenti cruciali è stato il Consiglio europeo (la riunione dei Capi di Stato e di Governo) del 26 marzo scorso. Nessun giornale italiano, ci risulta, ha dato copertura completa del vertice, mentre un ottimo resoconto è stato fornito dallo spagnolo El Paìs che, grazie al racconto di partecipanti alle varie delegazioni ha ricostruito quei tesissimi momenti, iniziati come una banale videoconferenza per formulare una dichiarazione congiunta «piena di intenzioni tanto belle quanto vaghe» e sviluppatasi poi in un appassionato dibattito a seguito della “ribellione” di Italia e Spagna seguite da altri sette governi: Belgio, Francia, Grecia , Irlanda, Lussemburgo, Portogallo e Slovenia.
Questi nove Governi (che guarda caso rappresentano il 72% del debito pubblico europeo), hanno chiesto che il Consiglio prendesse posizione sull’opportunità di «uno strumento di debito comune emesso da una Istituzione dell’UE »((Lettera di Conte di altri 8 Capi di Stato e di Governo)), cioè gli oramai famigerati eurobond. Dall’altra parte le restanti nazioni, tra cui Paesi Bassi, Austria, Finlandia e Germania, forti della loro maggiore capacità di ricorso al mercato, hanno inizialmente proposto due misure: permettere gli aiuti di Stato alle imprese in difficoltà (prima vietato) e sospendere temporaneamente il noto Patto di Stabilità e Crescita. Non era poco per loro, che rinunciavano così a consolidati principi. In mezzo a tutti, il Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel a fare da mediatore. Le fonti ascoltate dal quotidiano spagnolo hanno raccontato che il dibattito si è concentrato e intrecciato su due punti: il rifiuto – soprattutto italiano – di accettare qualsiasi riferimento al MES e la proposta spagnola di affidare ad un gruppo di lavoro (un comitato ristretto) la redazione di un rapporto sulle possibili formule per finanziare una risposta europea alla crisi del coronavirus.
Il Governo Conte è stato il più radicale nel rifiutare il Meccanismo Europeo di Stabilità, ma ha trovato un duro avversario: «Se l’Italia elimina la menzione al MES, togliamo tutto il resto del paragrafo» sugli aiuti europei, ha risposto il Capo del Governo olandese Rutte. La sua posizione è stata subito fatta propria dalla Merkel. La Cancelliera, raccontano alcuni testimoni, era curiosamente l’unica, tra i partecipati alla conferenza a distanza, a non apparire in video ma solo con una foto sullo schermo (in cui era molto più giovane…) e, altra stranezza, era “doppiata” simultaneamente da un’interprete: non sappiamo spiegarci il perché, certo non un’esigenza estetica, forse una momentanea mancanza di salute, chissà se in relazione al periodo di quarantena alla quale era sottoposta per il contagio di un medico con il quale era entrata in contatto.
È quindi dalla voce dell’interprete che i colleghi europei hanno sentito, «il MES è uno strumento molto buono, non siate così critici! Se sono i coronabond che state aspettando, non arriveranno mai. Il mio Parlamento non lo accetterebbe. State suscitando aspettative che non saranno soddisfatte e inviando messaggi di divisione».
La Spagna si è dimostrata più incline ad una mediazione: soluzioni alternative avrebbero potuto essere elaborate da un gruppo di lavoro «composto dai presidenti delle cinque istituzioni europee», come proposto dal premier iberico Sánchez. «Nein!», è la risposta che è risuonata da Berlino con la voce propria della Cancelliera. «Proporrà cose che non posso accettare», ha proseguito, convinta che i cinque presidenti avrebbero finito per suggerire una sorta di mutualizzazione del debito. Questo timore veniva dal fatto che nel gruppo, oltre che alla Von der Layen per la Commissione, vi sarebbero stati un belga, Michel per il Consiglio, un portoghese, Centeno per l’Eurogruppo, un italiano, Sassoli per il Parlamento, e una francese, Lagarde per la BCE: Paesi i cui governi si stavano spendendo per gli eurobond. Proprio per evitare questo esito, e al contempo trovare una mediazione, la Merkel ha sì acconsentito alla formazione del comitato, ma a patto che fossero esclusi l’italiano e la francese; Sánchez ha però ottenuto che il nome di quest’ultima fosse mantenuto. Risultato: Sassoli è stato l’unico espunto dalla lista! La sua irritazione deve essere stata molta, se proprio il giorno dopo si è lamentato “dell’egoismo e della miopia” di quei “Paesi timidi” che non sapranno a chi vendere “la loro tecnologia o i loro tulipani”, sventolando, a favor di telecamera, un mazzetto dei tipici fiori olandesi, in un’intervista proprio a quel TG1 che condusse in tempi non sospetti. Intervista un po’ compiacente, che ha mancato di dare atto proprio della esclusione che abbiamo raccontato.
La riunione ha così dato mandato al neonato gruppo di lavoro di elaborare una bozza di soluzione entro due settimane, da far poi confluire, come è avvenuto, in una formale proposta elaborata dall’Eurogruppo (i ministri delle finanze dei Paesi che adottano l’euro)((Par. 14 comunicato del Consiglio europeo)). Con la speranza che potessero essere avvicinate le contrapposte posizioni dell’Italia e dell’Olanda, asserragliate, la prima, sull’eliminazione di ogni riferimento al MES e, la seconda, sul suo utilizzo con le stringenti regole passate. La sensazione diffusa era che una mediazione fosse possibile grazie alle posizioni più ravvicinate di Spagna e Germania che erano possibiliste sull’utilizzo del MES al posto degli eurobond, ma con regole diverse dal passato. Nella successiva riunione del 9 aprile l’Eurogruppo ha infatti proposto che tutti gli Stati possano ottenere credito dal MES, «con condizioni standardizzate, concordate in anticipo» dai suoi organi direttivi, con gli unici limiti che si finanzino «costi diretti e indiretti dell’assistenza sanitaria, delle cure e della prevenzione» dovuti al virus, al massimo per il 2% del PIL, come indicato nel paragrafo 16 del resoconto1.
Nella stessa occasione l’Eurogruppo ha proposto anche l’istituzione di un “fondo per la ripresa” (recovery fund) i cui contorni sono ancora vaghi ma che dovrebbe finanziare «programmi volti a rilanciare l’economia in linea con le priorità europee» (paragrafo 19 dello stesso documento).
Conte ha dichiarato, nel dibattito parlamentare del 21 aprile, che l’obiettivo del Governo è di ottenere con esso uno strumento europeo (non bilaterale), «particolarmente consistente» dal punto di vista finanziario e senza le usuali condizionalità in termini di cofinanziamento o modalità di spesa che hanno i fondi europei.
Ma anche nella successiva riunione del Consiglio europeo, di due giorni dopo, i dettagli non sono stati chiariti. È stato annunciato che il fondo dovrebbe essere legato al bilancio pluriennale dell’UE e non prevedere la mutualizzazione del debito (inaccettabile per i Paesi del nord) ma la sua concreta definizione è stata rimessa alla Commissione, che dovrebbe presentare una proposta il prossimo 6 maggio dopo aver interloquito con le altre istituzioni europee e i governi nazionali.
Per ora esprimere un giudizio è quindi impossibile. Possiamo solo dare qualche indicazione per orientarsi nel dibattito confuso che si sta svolgendo in Italia.
In primo luogo ancora è ignoto il preciso ammontare, dato che si va dalle voci di corridoio che presagiscono circa 320 miliardi, raddoppiando così l’attuale bilancio UE, agli addirittura 1500 miliardi della proposta avanzata dal Governo spagnolo. In secondo luogo la tipologia dei trasferimenti, partita apertissima, dato che la Presidente della Commissione si è vagamente impegnata a “trovare il giusto equilibrio tra sovvenzioni e prestiti”. Evidentemente sono ancora lontane le posizioni dei Paesi che chiedono soldi a fondo perduto e quelli del nord che vogliono concedere solo prestiti; tra questi ultimi non solo la tanto vituperata Olanda ma anche la Svezia che, guidata dal socialdemocratico Löfven, non appare in sintonia con i “partiti fratelli” del PD italiano e di quello socialista spagnolo.
Non sono chiari nemmeno i criteri di distribuzione delle somme, ad esempio la proposta spagnola suggeriva di considerare la percentuale della popolazione colpita, la riduzione del PIL e l’aumento dei livelli di disoccupazione; parimenti dovranno essere specificate le modalità di finanziamento, visto che alcuni Paesi premono per l’emissione di nuovi titoli garantiti dal bilancio UE, per far rientrare dalla finestra una sorta di eurobond sotto mentite spoglie, dall’altra si sostiene l’opportunità di aumentare i contributi nazionali al bilancio UE, o un mix delle due possibilità.
Fondamentali poi saranno le condizioni del prestito/trasferimento. I Paesi del nord sono sempre stati molto chiari nel richiedere le cosiddette condizionalità, cioè l’impegno da parte dei Paesi che richiedono prestiti ad effettuare politiche economiche concordate con il creditore. Il Governo olandese ha cambiato la terminologia e sostituito le allarmanti condizionalità con la più suadente convergenza, benché l’obiettivo sembri lo stesso: che i trasferimenti siano accompagnati a riforme che migliorino la competitività del Paese beneficiario. Il problema è capire quali.
Quando la proposta della Commissione vedrà la luce la analizzeremo. Per ora possiamo concludere che drammatizzare, o all’opposto esultare, non ha senso visto che è stato trovato l’accordo su un contenitore ancora vuoto la cui sostanza è ancora da decidere: le forze politiche dovrebbero concentrarsi sulle varie singole caratteristiche per influenzarle, invece di schierarsi in opposte tifoserie che si aggrediscono, è proprio il caso di dirlo, per partito preso.
Il PD sembra favorevole ad un MES senza condizioni, o con condizioni attenuate, salvo poi non specificare esattamente quali. La Lega nord all’opposto è contraria sia al MES che agli eurobond, considerandoli un’ingerenza sulla libertà dell’Italia nella gestione della sua politica economica. Ha infatti lanciato un appello per l’emissione di debito “sovrano” tramite titoli nazionali, salvo non considerare che oggi il relativo tasso di interesse è mantenuto forzatamente basso dalla politica di acquisto di massa da parte della BCE, la cui estensione non può essere infinita e non può prescindere dalle esigenze degli altri Paesi europei((La BCE con il programma di “alleggerimento quantitativo” di Draghi (Quantitative easing) ha acquistato titoli di stato per 2100 miliardi negli ultimi anni causando forte malcontento nei Paesi del nord per la conseguente svalutazione dell’euro. Per un riassunto delle misure della BCE consultare il rapporto annuale 2018 al punto 2.2)). Come che sia, tale posizione è una evoluzione della passata politica-economica del partito che nella nella scorsa legislatura aveva candidato e fatto eleggere tra le sua fila Tremonti, l’ex Ministro dell’economia di governi sostenuti dalla Lega, che nel 2010, insieme a Jean-Claude Juncker aveva proposto l’adozione degli eurobond i quali avrebbero dovuto essere il completamento del MES. Forse a questo si riferiva Borghi nella discussione parlamentare dello scorso 30 aprile, quando ha rivendicato la paternità del “Fondo per la ripresa”, criticando il Governo che nel DEF l’aveva considerata un’idea francese (pagina 20 del Resoconto). Resta da capire perché oggi il Partito guidato da Salvini consideri una catastrofe per l’Italia la realizzazione di una loro idea.
Molto simili tra loro sono le posizioni di Fratelli d’Italia e del Movimento 5 stelle, entrambi contrarie al MES e favorevoli agli eurobond. Sono spaventati dalle “condizioni” alle quali l’Italia dovrebbe sottostare per ottenere un prestito dal vituperato Meccanismo europeo di Stabilità, prevedendo naturale conseguenza l’obbligo di ridurre il deficit e magari aumentare le tasse. Ma la posizione a nostro avviso pecca di ingenuità: per quale motivo mai gli eurobond dovrebbero essere esenti da qualunque forma di ingerenza degli altri governi europei? Possibile che gli altri Paesi ci offrano la loro garanzia per ottenere dal mercato denaro a tasso più basso e non possano nemmeno pretendere che siano destinati a spesa produttiva, invece che utilizzati per comprare consenso elettorale come avvenuto in passato? Ma qualcuno troverebbe forse ascolto in una banca se chiedesse un mutuo senza assicurare che la somma ricevuta sia giustamente investita, invece che utilizzata per andare al ristorante tutte le sere?
La difficoltà di Conte è proprio che è molto difficile per lui muoversi su questa scacchiera perché il partito di maggioranza relativa lo spinge verso una pretesa, gli eurobond, inaccettabile per gli altri Governi europei. E le opposizioni lo criticano utilizzando paradossalmente i suoi stessi argomenti e ponendosi, ad intermittenza, obiettivi sovrapponibili. Questa molteplicità di veti incrociati sembra abbia indebolito l’azione italiana che, una volta caduta la proposta iniziale degli eurobond, è rimasta senza una controproposta politicamente spendibile e non ha potuto fare altro che aggregarsi all’interlocuzione tra Francia, Spagna e Germania. Lo stallo sembra confermato dalla mancanza di un voto parlamentare sulla partecipazione dell’Italia al Consiglio europeo.
Su questo punto è necessario spendere qualche parola in più per valutare cosa sia successo: fino al 2011 i Governi non ricevevano mai un mandato parlamentare per i vertici europei. Monti ribaltò la prassi e sottopose le sue proposte di indirizzo al Parlamento, procedura che per il futuro è stata imposta con legge (234 del 2012). Invece Conte ha solo reso un’informativa, cioè una comunicazione a cui segue un dibattito relativamente breve, senza voto né replica del Presidente del Consiglio. Ciò è stato possibile con il comodo pretesto che non si tratti di veri e propri Consigli europei, ma riunioni informali tra i soggetti che compongono il Consiglio stesso. Però l’importanza del tema giustificava un dibattito ampio, un voto chiaro del Parlamento, al quale non si è dato luogo proprio per le contraddizioni interne della maggioranza che non voleva ben chiarire la propria posizione.
L’unica costante di tutta la politica nostana è la curiosa richiesta che l’Italia debba ricevere soldi a pioggia perché sì, perché siamo noi; una pretesa che non è mai accompagnata, però, dalla responsabilità di elaborare piani dettagliati sulla destinazione dei fondi, né verificare quanto gli altri Stati siano in grado di aiutarci a fronte dell’estensione del contagio che colpisce anche loro.
- par 16 del resoconto dell’Eurogruppo [↩]