di Marco Ottanelli
Coltivo la fiducia che, anche per merito dell’Italia,
alle nuove fondamenta della “casa comune” europea
non manchi il “cemento” di quella straordinaria eredità religiosa, culturale e civile
che ha reso grande l’Europa nei secoli»
(Giovanni Paolo II,
discorso al Parlamento della Repubblica Italiana,
14 novembre 2002)
«Nel processo in atto verso un nuovo ordinamento istituzionale l’Europa
non potrà ignorare la sua eredità cristiana, dal momento che gran parte di quello che essa ha prodotto…
è stato influenzato dal messaggio evangelico»
(Giovanni Paolo II, messaggio al convegno di studi sul tema
Verso una costituzione europea?, 20 giugno 2002)
«Riconoscere esplicitamente nel Trattato le radici cristiane dell’Europa
diventa per il Continente la principale garanzia di futuro»
(Giovanni Paolo II, angelus del 24 agosto 2003)
“L’Europa è un continente culturale e non geografico. È la sua cultura che le dona una identità comune.
Le radici che hanno formato e permesso la formazione di questo continente sono quelle del cristianesimo. […]
In questo senso, la Turchia ha sempre rappresentato nel corso della storia un altro continente,
in permanente contrasto con l’Europa.
Storicamente e culturalmente la Turchia ha poco da spartire con l’Europa:
perciò sarebbe un errore grande inglobarla nell’Unione Europea.
Turchia laica, essa resta il nucleo dell’antico impero ottomano,
ha un fondamento islamico e quindi è molto diversa dall’Europa
che pure è un insieme di stati laici ma con fondamento cristiano,
anche se oggi sembrano ingiustificatamente negarlo.
Perciò l’ingresso della Turchia nell’UE sarebbe antistorico”
(Cardinale Josef Raztinger, intervista a Le Figaro, ottobre 2004)
Domenica 12 maggio 2013: papa Francesco, concludendo un processo di canonizzazione cominciato nel 1980 sotto Giovanni Paolo II, e concretizzatosi con il riconoscimento del dovuto miracolo, nel 2006, sotto Benedetto XVI, proclama santi Antonio Primaldo, umile calzolaio, o forse umile sarto, comunque umile, e i suoi ottocento sventurati concittadini di Otranto, massacrati dai turchi nel 1480.
Questa massiccia elevazione agli altari (ben ottocento persone/anime/morti tutti insieme! Su un totale riconosciuto di neanche 10 mila santi in tutta la storia della Chiesa1 ) ha un significato esplicitamente politico, fortemente simbolico, altamente propagandistico e profondamente romanocentrico, tutti elementi tipici del pontificato di Wojtyła e della sua rivitalizzata teoria che solo nel cattolicesimo vi è salvezza, assieme a quello invero martellante delle radici cristiane d’Europa. Due dei pochi punti sui quali concordava pienamente con il suo presidente della congregazione della fede e successore, Ratzinger.
Il messaggio era ed è univoco: questi sono martiri della fede, morti soffrendo per Cristo e per difendere la loro appartenenza alla verità, all’Europa, all’Occidente, “vittime dell’Islam”, come titola il giorno stesso il quotidiano Il Giornale con la consueta pacatezza, ed interpretando – in realtà – la valenza missionaria di questa canonizzazione.
Tanti santi per Roma
Giovanni Paolo II, il gran santificatore, ha innalzato agli altari una moltitudine di personaggi. Ha proclamato ben 1338 beati e ben 482 santi, mentre nei quattro secoli precedenti, i suoi predecessori avevano proclamato in totale circa 300 santi. La sproporzione è enorme, e va di pari passo con i suoi numerosi incontri ecumenici con le altre religioni. No, non c’è contraddizione, in questo: Wojtyla si pose sempre come primus inter pares nei confronti degli altri leader di altre confessioni, ai quali contrappose sempre una Chiesa, la sua, sì aperta al dialogo, ma piena zeppa di santi, di martiri, di caduti nella lotta contro gli infedeli (fossero essi bruti pirati saraceni, selvaggi di tribù tropicali o cinici repubblicani anticlericali della guerra civile spagnola), e quindi, unica e vera manifestazione della volontà divina manifestata sulla Terra. In questa chiave, ed in quella assai connessa delle radici cristiane d’Europa, si collocavano perfettamente gli ottocento martiri di Otranto.
Il fatto
Ma chi sono, questi disgraziati che oggi godono di tanta fama e cosa accadde, nel 1480? In poche parole, in quell’anno, il Sultano turco Maometto II autorizzò il suo generale Gedik Ahmet Pascià a tentare un’impresa eccezionale: uno sbarco in Italia e la conquista delle Puglie, per controllare l’Adriatico sulle due sponde. Tentò l’assalto a Brindisi, ma i venti spinsero le sue navi più a sud, e, dopo un assedio di ben due settimane, conquistò Otranto e ne fece una base per incursioni e devastazioni in tutta la regione, da Lecce fino al Gargano. La città occupata subì orrori e distruzioni, e moltissimi abitanti vennero massacrati e martoriati, compresi gli ottocento, uccisi tutti assieme, in un sol giorno, tramite taglio della testa, il 14 agosto.
Il martirologio
Tante persone uccise dai turchi non potevano che essere facilissimo strumento di propaganda come martiri della fede, ed infatti ben presto si sparse la voce che i poveretti, condotti davanti al Pascià, fossero stati costretti a scegliere tra la conversione all’Islam e la morte. Come sempre accade, a diceria si aggiunse leggenda, a leggenda mito, a mito miracolo.
Si disse che il comandante militare di Otranto, Francesco Zurlo, fosse stato fatto tagliare a pezzi, e come l’anziano vescovo Stefano Pendinelli fosse stato orribilmente segato in due. Alla fine il racconto si consolidò sulla scena degli ottocento (per la precisione, 812) otrantini portati a forza sul Colle di Minerva poco fuori la città, ai quali il turco intima la conversione. Tra essi si erge l’umile Antonio Pezzullo, e a gran voce esorta i compaesani con queste parole: «Fin qui ci siamo battuti per la Patria e per salvare i nostri beni e la vita. Ora bisogna battersi per Gesù Cristo e per salvare le nostre anime», dopo di che mette per primo (e così si conquista il nome celebrativo di Primaldo) il collo sul ceppo, e viene decapitato. Il suo corpo però si rialza, e rimane così ritto, nonostante gli sforzi per atterrarlo, fino alla fine del massacro, quasi come se fieramente avesse voluto assistere i compagni nella sorte. A mattanza avvenuta, nella notte, si videro luci e bagliori, e quando, più di un anno dopo, ai corpi abbandonati vennero finalmente date degne sepolture, riferisce il frate Pietro Colonna Galatino “erano essi, talmente illesi ed integri (come io vidi), che neppure un capello era in essi diminuito; e così freschi, da sembrare che da un’ora appena fossero stati uccisi. Ond’è che un cane riconobbe il suo padrone giacente tra quelli e cominciò a scodinzolargli vicino; e, ciò che è più mirabile, furono trovati tutti con gli occhi rivolti al cielo; nessuno di essi accennava tristezza di sorta; anzi mostravano un così lieto ed ilare volto, che sembrava ridessero”. Una sceneggiatura così, con tutto il rispetto per il corpo ritto di Primaldo, non sta in piedi, e quindi sarà bene suddividere la Storia dalla emozione, la cronaca dalla religione, e individuare fini e scopi della canonizzazione.
Lo scopo
L’esagerazione2 e mitizzazione dei fatti di Otranto ha avuto da sempre uno scopo ben preciso, e, negli ultimi anni, ne ha assunto uno nuovo: radicalizzazione e contrapposizione assolute tra religioni, culture, civiltà, e, più recentemente, prova e conferma di quell’astruso ed antistorico concetto di radici cristiane dell’Europa che Vaticano ed uno stuolo di politici di destra di mezzo continente (più una fetta del PD) vorrebbero addirittura mettere nei trattati dell’Unione (di cui il Vaticano, peraltro, non fa parte).
La storiografia e la agiografia cristiano-centrica, ed in particolare quella cattolica romana, hanno da sempre eliminato, o sminuito, la effettiva presenza e operatività e vivacità di altre religioni in Europa. A prescindere dall’assunto, per noi così evidente in sé stesso, e quindi scontato, che l’Europa e la sua civiltà sono nate ed evolute prima, a prescindere e nonostante il cristianesimo, attraverso la storia dei Celti, dei Greci, dei Britanni, dei Latini, dei Siculi, degli Etruschi e dei Romani, e ben conoscendo il fatto che le terre oggi a tutti gli effetti considerate “Europa” sono state a lungo pagane o animiste, a partire dai Sassoni convertiti a fil di spada da Carlo Magno nel IX secolo, passando dagli ungari e slavi nel XI secolo, per arrivare alla crociata contro i Finni e la cristianizzazione forzata della Finlandia del 1155 ad opera del re di Svezia Erik e del suo quasi omonimo sant’Enrico. Insomma, dalla nascita di Cristo, dall’arrivo di Pietro e Paolo a Roma, sono almeno 1100 gli anni necessari per assicurare alla fede cristiana l’Europa, dagli Urali ai Pirenei.
Già, perché oltre i Pirenei, pur sempre in Europa, in quei secoli fioriscono e prosperano i civilissimi e tollerantissimi regni islamici iberici, per non parlare di tutti quei regni e stati e città more, arabe, che sorsero e si evolsero nel bacino del Mediterraneo, dalla Sicilia fino alle coste liguri e francesi, dall’Adriatico al Tirreno; regni iberici che come sappiamo dalle canzoni di Rolando, si spinsero su su fino a Poitiers, 200 km da Parigi. E che poi si consolidarono in quella sorta di melting pot ante litteram che era Al-Andalus, il califfato di Cordova, ed il regno di Granada, destinato ad esistere, e a resistere, fino al fatidico 1492, quasi un secolo e mezzo dopo la crocifissione di Gesù.
E le genti di religione ebraica? Quante comunità, quante città, a cominciare dalla stessa Roma, accoglievano e accolgono cittadini ebrei? Altro che radici cristiane, l’Europa ha radici forti, sue, proprie, ma culturali, quelle radici che, attingendo alle fonti antiche, daranno i frutti preziosissimi quali la scienza galileiana, la razionalità volteirriana, la laicità, la libertà. Altro che radici cristiane. E poi, Europa è sì un continente ben definito, ma nel medioevo la civiltà e le etnie europee (greci, latini, slavi) erano presenti, e da migliaia di anni, in regioni come Cipro, Anatolia, Palestina. Oh, le radici cristiane della Palestina, quanto sono profonde! E la chiesa di Antiochia, che fu potente ed influente, non è ragione sufficiente per parlare di radici cristiane europee di quel mondo greco-bizantino che nell’Asia Minore aveva visto splendere la civiltà ellenistica? Ma queste, ripetiamo, per noi son quasi banalità, e lo erano sicuramente anche per gli europei del medioevo, che vivevano in un’Europa divisa tra un centro germanico-latino cattolico, un est slavo-greco ortodosso, e due ali esterne i (Balcani e Iberia) in mano a turchi ed arabi, islamici sì, ma nemici giurati l’uno dell’altro. Vivevano un’Europa molto più multiculturale e multietnica di oggi, che in quel fatidico 1480 vedeva le truppe e le navi ottomane compiere scorrerie fin nel Friuli, fino in Ungheria, e lungo tutte le coste e le isole, dall’Egeo a Gibilterra, e dove la presenza della capitale dei Turchi sul Bosforo era un fatto dato per ormai storicamente consolidato e legittimo, dopo il terribile sacco di Costantinopoli, ormai sede della Porta da ben 27 anni.
I cristiani del 1480 sapevano di essere pochi, e limitati in un territorio ristretto e costretto tra diverse potenze, religioni, stati e civiltà.
Lo sapevano, ed agivano di conseguenza, commerciando, stipulando trattati, aprendo ambascerie e firmando alleanze con tutti, e allo stesso modo contro tutti, senza alcun, diremmo oggi, razzismo.
I tempi cambiano
La presa, saccheggio e distruzione di Otranto fu un brutto colpo. Il papa, Sisto IV, tentò persino di bandire una crociata, radunando e costruendo flotte per giungere fin a Costantinopoli, o perlomeno fino alla dirimpettaia Valona, da poco diventata porto turco, dopo la capitolazione dello Skanderbeg3, ma i regni europei e gli stati italiani, che già avevano dato più di quanto volessero dare per la riconquista di Otranto stessa, nicchiarono, persero tempo, e, insomma, non se ne fece più di nulla.
Perché la guerra è guerra, ed è fatta di morti, e di massacri, si sapeva allora e lo si sa oggi, e nessuno era ed è innocente, in questo genere di cose, e gli assalti alle città si concludevano spesso in tale feroce maniera; quindi, spiacenti per quegli ottocento, ma la vita continua, e si passa ad un’altra guerra, un altro saccheggio, un altro massacro (ed il secolo che verrà, il XVI, sarà particolarmente terribile, in questo senso). La vita umana, la vita del singolo, valeva meno di niente. La vita di ottocento sudditi e fedeli valeva il costo della loro manovalanza e delle corveé.
Anche la Chiesa ed il papato si scordarono presto l’episodio, visto che i tempi cambiano, e, lasciata alla ingenua pietà popolare locale la favola del morto che non cade, Roma pensa alla conquista di Bologna, e poi alle guerre della Lega Santa, e a Carlo V che la mette addirittura a terribile sacco, 1527, e alle decine di migliaia di morti romani nessuno erge neanche un altarino, finché accadono due fatti determinanti: il 31 ottobre 1517 Lutero affigge le 95 tesi sul portone della Chiesa di Wittenberg, e cominciano le lotte e i conflitti con il protestantesimo, e nel 1538, la flotta pontificia e di molti altri stati cristiani viene distrutta dall’ammiraglio-corsaro Khayr al-Dīn, detto Ariadeno Barbarossa, il grande devastatore di città italiane e di Minorca. A quel punto, mentre si invoca e organizza la riscossa, che culminerà nella battaglia di Lepanto, si avvia, contestualmente e non casualmente, il processo di beatificazione dei martiri otrantini.
Una beatificazione invocata dunque non per i loro eventuali meriti spirituali, ma contro il nemico di sempre, che se non può essere sconfitto per sempre sui mari, lo sarà almeno nel regno dei cieli; ma poi la beatificazione si blocca, non giunge a proclamazione, si arena, congelata nelle maglie della diplomazia perché subito dopo gli ottomani si alleano con la Francia e attaccano Reggio Calabria, e l’Isola d’Elba, e Nizza che era di Genova, e quindi insomma, mentre le guerre di religione tra cattolici e protestanti contano milioni di morti, è meglio dimenticare Otranto per i secoli seguenti.
Le radici poco cristiane della ragion di stato
Torniamo al 1480, e ripercorriamo quei fatti grazie agli studi della storiografia moderna, che ha riscritto in buona parte le interpretazioni e le ipotesi antiche4 sulla natura della strage pugliese. Maometto II ha conquistato Costantinopoli, dilagato nella Tracia, Macedonia e Albania, e occupato gran parte della Grecia. Nella successiva fase, affida la sua politica espansionista ad abili generali quali Gedik Ahmet Pascià, che mosse guerre contro popoli (islamici) che resistevano in Anatolia, sconfisse i genovesi nelle loro colonie in Crimea, si scagliò poi contro i possedimenti veneziani nell’Egeo (in particolare il Negroponte, l’isola di Eubea) e in Albania. Anzi, quella contro Venezia si tramutò in una vera e propria guerra totale, con sbarchi e assedi e saccheggi reciproci, e con incursioni di eserciti ottomani fin alla linea del Piave, da nord. In questi dieci anni di terribile conflitto, la Serenissima venne lasciata sola sia dalle grandi potenze cattoliche europee, sia dagli staterelli italiani, tutti interessati a lasciar cadere le basi veneziane per potersi aprire spazi commerciali oltre gli stretti. Altro che fratellanza cristiana! Anzi, tanto per cambiare, guerre e conflitti investirono la nostra penisola, coinvolgendo anche il papato.
Mentre Maometto II si sentiva erede dell’Impero Bizantino, e quindi di quello Romano, e, in una sorta di sogno universale, intendeva compiere la missione di riunire sotto di sé tutte le terre che furono di Roma, e farsi Cesare Augusto con una politica di sostanziale tolleranza religiosa ed etnica, in Italia tutta la politica era volta a dividere e frammentare signorie e repubbliche, affinché nessuna potesse prevalere mai sulle altre.
Quando nel 1480 Gedik (che era originariamente cristiano, convertitosi all’islam solo per far carriera, era greco o albanese!) attacca la Puglia, non va a caccia di martiri, ma tenta la conquista dell’Italia5 . O perlomeno tenta di gettarvi una testa di ponte. Il suo, e quello del suo sovrano, non è un sogno religioso, ma un tentativo politico-territoriale di riunificare sotto il trono di Costantinopoli la romanità.
E questo accade in quel 1480 perché la condizione è delle più favorevoli: Venezia, battuta e sconfitta, è in piena crisi economica ed ha subito perdite umane ingenti; il trattato di pace del 1479 assicura ai turchi un’ampia tranquillità sui mari, liberi dal pericolo della flotta veneta. Inoltre, la repubblica lagunare ha un profondo rancore verso i suoi vicini europei per l’abbandono nel quale è stata lasciata, ed anzi, ora li teme.
Neanche gli appelli disperati dei Cavalieri di Rodi, che riuscirono a respingere le armate ottomane a costo di terribili sacrifici dalla loro isola, avevano commosso le potenze europee: l’arrivo a Rodi unicamente di qualche migliaio di volontari aveva dimostrato a Gedik Ahmat che i cristiani erano più divisi di quanto si aspettasse. Per quanto sconfitto, il Pascià trasse da quella esperienza preziosissime cognizioni sulla scarsa volontà degli stati europei di intervenire l’uno in soccorso dell’altro.
Inoltre, e soprattutto, il vicereame aragonese di Napoli e lo Stato Pontificio sono in quell’anno impegnati assieme in una guerra tutta italiana, la guerra contro la Firenze di Lorenzo de’ Medici.
La guerra dei Pazzi. Tra cristiani, naturalmente.
Nel 1479, un anno prima dello sbarco turco sulle coste otrantine, le truppe del re Ferrante di Napoli e di papa Sisto IV mossero verso i territori della Repubblica di Firenze, e ne occuparono castelli e borghi, approfittando dell’alleanza del confinante Ducato di Urbino e della sottomissione della Repubblica di Siena. Un fior di guerra fatta di blitz e scorrerie, di scontri, e di assedi a piazzeforti e a centri abitati6.
Il conflitto era partito nel 1478, quando un vero e proprio intrigo internazionale, mosso da Sua Santità papa Sisto IV, aveva cercato di eliminare fisicamente i Medici ed il loro alleati dal governo di Firenze per far cadere la repubblica gigliata nelle mani dei Della Rovere, la famiglia del papa stesso.
Alla congiura avevano preso parte i Della Rovere, e quindi lo stato Pontificio; il re di Napoli Don Ferrante; il duca di Urbino, Federico da Montefeltro; la repubblica di Siena, eterna nemica di Firenze, nonché la potente famiglia fiorentina dei Pazzi, eterna rivale dei Medici e in quel periodo padrona di un banco che aveva finanziato le casse e gli eserciti papali, e l’arcivescovo di Pisa, Francesco Salviati. Con uno stuolo di sicari, tra cui alcuni preti, e le truppe pontificie pronte ad intervenire, i congiurati, guidati dai Pazzi, come è noto, il 26 aprile uccisero Giuliano de’ Medici e ferirono lievemente Lorenzo durante la messa solenne nella cattedrale di Santa Maria del Fiore.
L’attentato contro l’uomo forte, il Magnifico, dunque, fallì, e fallì in parte anche perché il killer professionista contattato per l’omicidio, tal Giovan Battista da Montesecco, condottiero, uomo d’armi e guerriero, non ebbe il coraggio di compiere il sacrilegio di ammazzare un uomo a tradimento in una chiesa. Scrupolo che non toccò evidentemente né gli impreparati sacerdoti che lo sostituirono, né il cardinal Salviati che lo aveva assunto, né il pontefice Sisto che aveva ordito la trama.
La reazione medicea, forte anche dello sdegno popolare dei fiorentini, e della tenuta delle istituzioni repubblicane, fu immediata, rapida, spietata: due dei congiurati, nello spazio di poche ore, vennero impiccati alle finestre del Palazzo della Signoria, mentre gli altri seguirono la stessa sorte nei giorni seguenti, o furono linciati dalla folla. Tutti tranne uno. Ne riparleremo.
I Pazzi superstiti fuggirono fuori dalle mura cittadine, e si rifugiarono presso le truppe pontificie e del duca di Calabria, già in marcia da Siena. Cominciò quindi quella breve guerra che così determinante è stata per la questione che stiamo esaminando.
Infatti, la decisione del Pascià e del Sultano di attaccare il regno di Napoli venne presa come immediata constatazione di uno stato propizio di circostanze: fallito, come si è detto, l’assalto a Rodi, l’armata turca venne dirottata verso l’Italia meridionale proprio perché essa era in quel momento sguarnita ed indifesa, essendo l’esercito ed i migliori comandanti napoletani impegnati contro Firenze.
La voglia di rivincita dopo la batosta presa dai Cavalieri e l’opportunità data da una guerra pan-italiana furono i due irrinunciabili elementi che mossero la flotta ottomana proprio nel 1480 contro Otranto, ed è per questo motivo, per il fatto che le armate del re Ferrante e del papa fossero impegnate a centinaia di chilometri, in Toscana, che il corpo di spedizione turco riuscì a cingere d’assedio Otranto per due settimane del tutto indisturbato, ed anzi, a spingersi poi fino a Bari, Taranto e Lecce, senza essere a sua volta attaccato alle spalle.
Lo sbarco ottomano in Puglia cambiò il corso della guerra. La necessità di cacciare l’invasore e di far fronte comune contro i maomettani pose fine alle ostilità. Già si era verificato lo spettacolare ed arditissimo viaggio di Lorenzo de’ Medici a Napoli, giusto nella bocca del leone, che aveva portato ad un armistizio col re ma non al ritiro delle truppe, ma ora il duca di Calabria marciò a tappe forzate verso sud, lasciando Siena con un pugno di mosche in mano, e costrinse Sisto IV a chiudere velocemente la partita toscana, e a mobilitarsi contro un pericolo ed un nemico decisamente più potente.
A Roma e Napoli si decise così di volgere le spade contro le schiene musulmane, dopo aver affettato un bel po’ di cristiani.
Firenze era salva.
Nessuna questione di fede, nessuna radice
La spedizione turca in Italia allora assume due aspetti assolutamente lontani dal concetto di “fede”, e da quello di “religione”: si tratta di una conquista territoriale, di un intervento militare volto a spostare gli equilibri europei a favore della Porta, di un tentativo di rendersi arbitro della situazione nella penisola, tentativo molte volte cercato dai regnanti d’oriente, di Germania, di Francia e Spagna, e questa volta operato dal Sultano.
La strage degli ottocento non si può ascrivere, affermano gli storici moderni, molti dei quali di cultura e formazione cattolica, alla leggendaria richiesta di rinnegare il Cristo, ma, molto più semplicemente (ma non meno tragicamente), ad una tipica, per quelle epoche, vendetta nei confronti di tutte le città o fortezze che, pur essendo palesemente destinate a cadere, si volessero opporre con risolutezza all’assediante. Si può dire che la consuetudine, la prassi di mettere a sacco piccole e grandi città era stata in un certo qual modo istituzionalizzata in una sorta di diritto internazionale ante litteram7 chi si opponeva al conquistatore, soprattutto se nel farlo commetteva scorrettezze di qualsiasi genere (dall’avvelenare i pozzi all’impiccare emissari e messaggeri avversari), sapeva perfettamente che al crollo delle difese si trovava esposto a sanguinosa rappresaglia. Il comandante Zurlo, ignaro del fatto che il suo Re gli avesse mentito, promettendogli massicci aiuti militari senza poterli prestare, perché l’esercito era in Toscana, si permise dunque arroganze inusitate (sparò un colpo di bombarda contro lo stesso Gedik Pascià avvicinatosi su un natante nel porto per parlamentare; fece impalare alcuni prigionieri turchi), e divenne così indirettamente responsabile di tutto ciò che seguì. Ad Otranto, le vittime di quell’assalto furono uccise non per la loro fede, o eroismo in Cristo, quanto per mera (e spietata e crudelissima ed efferata) ma consueta rappresaglia, con tanto di spettacolare decapitazione di massa, unicamente fatto a monito delle città vicine. Il messaggio non era, non era mai stato, “convertitevi o perirete”, ma piuttosto “arrendetevi, o perirete”8.
E che il messaggio fosse quest’ultimo, e non altro, lo sapevano perfettamente il re di Napoli, il papa (che, come abbiamo visto, aspettò la crisi della chiesa di Roma, per celebrare come martiri quei caduti), Venezia e Firenze.
Anzi, il balio (l’ambasciatore) veneziano a Costantinopoli, come riporta lo storico Franco Cardini citando fonti proprio veneziane, fu incaricato di far sapere al Sultano, da parte dei suo governo, che “egli poteva a buon diritto impadronirsi della Puglia in quanto tali territori appartenevano d’antico diritto al territorio di Bisanzio del quale egli era signore.”
A Firenze, si festeggiò. Lorenzo il Magnifico fece addirittura incidere una medaglia in onore di Maometto II (medaglia che lo celebrava con le parole “Mahumet, Asie ac Trapesunzis Magneque Gretie Imperator” , cioè Imperatore dell’Asia, di Trebisonda e della Magna Grecia, che come tutti sanno era l’Italia meridionale…) in onore della vittoria di Gelik ad Otranto, altro che radici cristiane. D’altronde i Medici e Firenze avevano con Costantinopoli rapporti cordialissimi, fatti di intensi scambi diplomatici e di reciproche visite ufficiali da parte di emissari e ambasciatori, con scambi di doni notevolissimi (tanta impressione e curiosità suscitò la giraffa giunta a Firenze assieme al seguito di Ibn-Mahfuz nel 1487) e con la stipula di trattati di ogni genere, compreso quello di estradizione: l’unico congiurato dei Pazzi scampato alla vendetta, quello al quale accennavamo prima, infatti, Bernardo Bandini, era fuggito all’estero, proprio a Costantinopoli, dove pensava di essere irraggiungibile. Ma venne colà arrestato dalle autorità ottomane, il 23 dicembre 1479, e nel giro di soli sei giorni, estradato, riconsegnato ai fiorentini e impiccato, anch’egli, alle inferriate delle finestre del Palazzo della Signoria. Il gesto, visto che il papato ed i suoi alleati aveva mosso guerra ai Medici, era una chiara dichiarazione politica.
Quindi, al centro della cristianità, molti erano coloro che si dolevano dello sbarco e della strage, ma molti erano anche quelli che ne gioivano. Non tutti coniarono medaglie per festeggiare l’impresa del pascià, ma in molte corti sicuramente si brindò.
Niente martiri
A questo punto, ogni cosa si fa meno netta in questa vicenda: non ci sono fronti contrapposti cristiani-musulmani, né Europa-Impero Ottomano. Soprattutto non ci sono martiri della fede e nessun anticristo col turbante. Ci sono invece guerre, sete di potere, equilibri internazionali e affari, la stessa solfa di sempre.
Dall’analisi dei documenti coevi, come i particolareggiatissimi dispacci dell’ambasciatore milanese, si comincia ad estrarre una narrazione dei fatti di Otranto meno splatter e più cinicamente normale. Il capitato comandante Zurlo non fu squartato né tagliato a fettine, ma cadde, valorosamente, sugli spalti delle mura durante l’ultimo, fatale, assalto del nemico. L’anziano vescovo non venne segato in due, per sua fortuna, ma morì di infarto, quando la cattedrale dove si era rinchiuso con tutto il clero fu attaccata dai turchi.
Molti cittadini otrantini ebbero salva la vita, pochissimi per buona sorte, chi per il triste destino di schiavo, chi perché in grado di pagare un riscatto.
Il bottino raccolto in questo modo e da tutte le (allora legalissime, in tempo di saccheggio) “espropriazioni” assommò alla notevole somma di 60000 ducati, di cui ben 18000 furono trovati nei forzieri del vescovo. Nessuno pensò, sul momento, di farne un’eroe della fede; anzi, il re, don Ferrante, ascoltando la relazione dei fatti e dei danni che gli veniva letta nella sala del trono, alla notizia appunto che il prelato aveva in cassa tanto denaro, sbottò: “che l ‘harebe facto meglio expendere li 18.000 ducati, chel teneva, in reparare et provedere ala terra!”9. Come dargli torto?
Non ci furono eroici artigiani pronti a morire per Gesù e capaci di convincere ottocento persone a fare altrettanto, ma ci fu sicuramente tanto terrore e tanta pena tra coloro che morirono sulla collina di Minerva, e forse, sì, qualcuno di loro invocò Dio, i Santi e la Madonna, e forse, sì, qualche carnefice li irrise, sentendosi egli quello della religione giusta.
Non ci fu nessun tentativo di conversione di massa, ma, come ricordato, la mattanza fu una fredda vendetta verso coloro che avevano osato resistere per quindici giorni, uccidendo emissari ed impalando i prigionieri.
Non ci fu nessun fremito di fratellanza cristiana, in Europa, ma ci furono invece guerre concluse in fretta e furia, approvazioni e complimenti verso il Sultano, e persino medaglie commemorative dell’impresa.
Non ci furono miracoli o segni del cielo, ma il solito fiume di sangue, ed era nulla, rispetto a quello che da lì a poco sarebbe scorso in Spagna, Francia, Italia, Fiandre e Germania nelle guerre tra cristiani.
Non ci fu, soprattutto, nessuna reazione militare comune, nessun esercito di correligionari pronti alla riscossa. No, per il momento, non ci fu.
Come andò a finire allora
Papa Sisto si spaventò assai. Il suo alleato aragonese-napoletano in difficoltà, la sua Roma minacciata, tutti gli interessi economici tessuti in tanti secoli messi a repentaglio… Ritirò l’anatema contro Firenze, e cominciò a chiedere a tutti i sovrani cristiani uomini, navi e mezzi per organizzare una spedizione punitiva in Albania e una crociata vera e propria.
Mentre il Duca di Calabria radunava le truppe e muoveva contro la Otranto occupata, e la cingeva d’assedio, lo Stato Pontificio invitava gli ambasciatori di tutte le potenze a Roma per un congresso di guerra agli Ottomani, e inviava ovunque propri legati a chiedere fondi. Sisto progettò di costruire una flotta con base ad Ancona, e per questo impose altre tasse ai suoi sudditi (un ducato d’oro a famiglia), alle parrocchie e ai conventi.
Le cose non andarono proprio come sperate: i veneziani per primi si tirarono indietro; i bolognesi la tirarono molto per le lunghe, ottenendo sconti e dilazioni sulla quota dovuta; i fiorentini promisero soldi a palate, poi ne mandarono solo una parte, oltre qualche nave. Luigi XI di Francia fece sapere che si sarebbe ben volentieri impegnato in un conflitto ma che non si poteva opporre ai Turchi alcuna valevole resistenza, se non vi erano a disposizione almeno 100000 scudi d’oro al mese. Egli s’impegnava a trovarli “ed anche per il doppio”, a patto che però…il papa gli permettesse d’imporre una tassa a tutto il clero del regno!
Edoardo IV d’Inghilterra rispose con un “no, I’m sorry!”, mentre dalla Germania dilaniata da scontri intestini non giunsero che buone intenzioni. Il re di Ungheria mandò un contingente, ma chiese (ed ottenne) fondi per difendere la piana danubiana, dove gli ottomani scorrazzavano senza posa.
Per ovviare ai ritardi dei regnanti, con una enciclica si imposero decime in tutta Europa direttamente da parte della Chiesa, e tale gabella fu così mal digerita, specialmente in terra tedesca ed in Inghilterra che questo sarà uno degli argomenti principali per i quali la Riforma divenne tanto popolare proprio in quelle nazioni.
Il Portogallo mandò una sua flotta, al comando del vescovo di Elbora. Ma il contributo di questo contingente fu più comico che altro: giunti ad Ostia, vescovo e nobili al seguito vollero recarsi a Roma, dove furono accolti ed ospitati con ogni riguardo. La dolce vita piacque molto ai signorotti portoghesi, che si attardarono in feste, banchetti, sollazzi e cene, mentre i marinai, lasciati soli, si davano all’allegro saccheggio, non violento ma massiccio, nelle campagne laziali10. Ci volle un perentorio ordine del pontefice e delle autorità romane per allontanarli e ricacciarli letteralmente in mare. Ancora ebbri di vini ed abbacchi, i portoghesi si presentarono a Napoli, ma ripresero a rubare e razziare, e furono rispediti in patria con la minaccia delle armi. Insomma, il panorama era quello di una cristianità divisa e pigra, per niente animata dallo spirito della crociata.
Infine, perlomeno, una flottiglia pontificia partì, dopo solenni benedizioni sul Tevere, e mosse verso la Puglia, in aiuto di re Ferrante.
Era nel frattempo deceduto il Sultano, Maometto II, ed i suoi figli si scontravano in una spietata guerra per il potere. Questo impedì il giungere dei rinforzi agli ottomani, e dopo un anno e due mesi di accanita resistenza, il 10 settembre 1481, Otranto veniva liberata.
Gelik Pascià, il condottiero, era tornato a Costantinopoli, per prendere parte alla lotta in favore di uno dei fratelli pretendenti al trono, il quale, una volta assunto il controllo dell’Impero come Bayezid II, non fidandosi del suo stesso generale, lo fece imprigionare e poi uccidere (1482); neanche tra i musulmani c’erano eroi della fede da onorare.
Otranto era ridotta ad un cumulo di macerie, con pochi, malconci, sopravvissuti; i turchi che non erano riusciti a reimbarcarsi per i Balcani si arresero, e il re Ferrante non parve essere così ligio ai principi della guerra di religione, perché ne arruolò cinquecento circa (di turchi islamici!) nei suoi eserciti.
La stessa flotta papalina, invece di eseguire gli ordini e di gettarsi su Valona approfittando della guerra civile ottomana, volse le vele verso casa. L’ira di Sisto IV fu incontenibile, ma né le minacce né le lusinghe fecero cambiare idea all’ammiraglio e ai capitani di vascello, che, anzi, giunti a Civitavecchia, non si fecero impressionare neanche dal fatto che il papa li raggiungesse di persona per chiedere spiegazioni ed intimar loro di riprendere il mare: a bordo c’era la peste, o comunque si stava male, e il soldo non era ancora arrivato.
Basta, nessuno avrebbe combattuto più. La spedizione era finita, la crociata era fallita.
E quelle ossa e teschi dopo Lepanto ripiombano nell’oblio, così come il processo per farne dei beati… E ci troviamo alla fine del XVIII secolo, trecento anni dopo, regnante il pontefice Clemente XIV, un vaso di coccio tra i tanti vasi di ferro dell’epoca, quando di Otranto non si ricordava veramente più nessuno. I problemi del momento erano altri: il giansenismo dilagante, gli equilibri politici europei, la scottante questione della soppressione dell’Ordine dei Gesuiti nonché la necessità di salvaguardare il potere dello Stato Pontificio ed i suoi territori minacciati. Clemente XIV mise in essere una serie infinita di mosse diplomatiche e propagandistiche alle quali si può facilmente ascrivere anche l’atto del 1771 con il quale proclamò finalmente beati i martiri pugliesi del 1480. Si attese dunque fino al 1771, ora che gli ottomani, stremati da guerre russe e austriache e con il loro alleato svedese così inelegantemente luterano, li si poteva sbeffeggiare, ritirando fuori la storia dei morti per la fede cattolica apostolica romana, l’unica e vera, da difende, anche da parte dei più umili, a costo della morte. Si dona al regno meridionale un altare in più, a patto che esso sopisca le sue mire sulla pontificia Benevento. Insomma, quella beatificazione così tardiva, lunga ben 300 anni, appare molto politica, e ben poco religiosa. Poco importa se tra gli atti del processo di beatificazione si trovarono falsi, apocrifi, firme contraffatte, contraddizioni palesi, al punto tale che l’intera documentazione prodotta dalla curia di Otranto venne eliminata dal fascicolo. Chissà che fine ha fatto.
Come è andata a finire oggi
Beatificati per caso e per calcolo alla fine del ‘700, nell’Ottocento, per calcolo, tornarono, ideologizzati e strumentalizzati, agli onori, non solo degli altari ma anche dalla propaganda nazionalista del neonato stato italiano, il quale, in cerca di una identità unitaria, si servì anche di quelle antiche vicende, che, peraltro, tornavano comode anche per giustificare agli occhi del popolo le mire coloniali dell’Italia sulla Turchia e sulla Libia, che era turca, quasi fossero una riconquista e una vendetta, particolarmente quando si celebrò il quarto centenario della strage, nel 1880. Ricordiamo che il 1880 è anche l’anno del Congresso di Berlino, che decise della spartizione del mondo, e che discusse anche delle coste meridionali mediterranee (Egitto, Libia, Tunisia), dividendole in zone di influenza tra Gran Bretagna, Francia e Italia. L’imperialismo degli straccioni (così Lenin definì le imprese coloniali italiane) era basato tutto su presunti diritti derivanti addirittura dall’Impero Romano e su concetti quali la civiltà, la cristianità, la fede come identità11.
La canonizzazione
Passerà un altro secolo, e si dovrà aspettare un papa in visita nel 1980, come abbiamo visto, per togliere la polvere del tempo e della stanca consuetudine dalle teche colme dei resti dei Beati. La missione di Wojtyla era chiara fin dal primo momento: quello ad Otranto fu il suo primo viaggio pastorale espressamente rivolto all’est. Interessanti le sue parole di quel giorno, 5 ottobre. Così parlò Giovanni Paolo II:
Siamo in un sacro luogo, perché ci troviamo sul Colle dei Martiri: proprio qui, esattamente 5 secoli fa, si ebbe la splendida, univoca, eroica testimonianza delle centinaia e centinaia di figli di codesta Terra generosa, i quali, incitati e preceduti dall’esempio mirabile del Beato Antonio Primaldo, caddero ad uno ad uno per “tener fede alla fede”…
Non possiamo leggere oggi, senza intensa emozione, le cronache dei testimoni oculari del drammatico episodio: “Moriamo per Gesù Cristo, tutti; moriamo volentieri, per non rinnegare la sua santa fede!” Erano forse degli illusi, degli uomini fuori del loro tempo? No, carissimi giovani! Quelli erano uomini, uomini autentici, forti, decisi, coerenti…E fecero, con lucidità e con fermezza, la loro scelta per Cristo! In 500 anni la storia del mondo ha subìto molti mutamenti; ma l’uomo, nella sua profonda interiorità, ha mantenuto gli stessi desideri, gli stessi ideali, le stesse esigenze; è rimasto esposto alle stesse tentazioni, che – in nome dei sistemi e delle ideologie di moda – cercano di svuotare il significato ed il valore del fatto religioso e della stessa fede cristiana.
Di fronte alle suggestioni di certe ideologie contemporanee, che esaltano e proclamano l’ateismo teorico o pratico, io chiedo a voi, giovani di Otranto e delle Puglie: siete disposti a ripetere, con piena convinzione e consapevolezza, le parole dei beati martiri: “Scegliamo piuttosto di morire per Cristo con qualsiasi genere di morte, anziché rinnegarlo”? (Qualsiasi genere di morte?? Chissà cosa gli rispondevano, in cuor loro, i giovani delle Puglie… nda) I beati martiri ci hanno lasciato – e in particolare hanno lasciato a voi – due consegne fondamentali: l’amore alla patria terrena; l’autenticità della fede cristiana.
Il cristiano ama la sua patria terrena. L’amore della patria è una virtù cristiana; sempre coerente con la sua fede12.
Queste ferventi parole, tutte intrise di palese anticomunismo (Giovanni Paolo II, quando parlava di quelle brutte ideologie contemporanee che praticano l’ateismo, indicava i prospicienti Balcani, all’epoca tutti occupati dalle repubbliche popolari marxiste) e di patriottismo militante da opporre all’invasor (nel 1980 si temevano ancora i cavalli dei cosacchi abbeverarsi in San Pietro….sembra impossibile, oggi, ma era una paura reale) erano state studiate apposta per far da cornice al simbolismo storico-geografico: Otranto è il punto più a Est d’Italia; quello più proteso verso quell’Est allora sotto quell’Impero del Male che tanto somigliava, negli incubi wojtyliani, all’Impero Ottomano. Anzi: Otranto era il punto più ad est dell’allora “Europa Occidentale” (salvo la Grecia, ma tanto quelli sono ortodossi). Era il luogo adatto, la testa di ponte, per la sfida che il pontificato di Karol avrebbe lanciato verso il socialismo.
La visita si compì pochi mesi dopo che una certa suora originaria di Rossano Calabro, Francesca Levote monaca professa delle Sorelle Povere di Santa Chiara, dichiarò di essere guarita13. da un cancro molto grave alle ovaie e già in metastasi dopo aver pregato sulle reliquie degli Ottocento Martiri che le consorelle le avevano appoggiato sul letto… Guarda caso, il miracolone avvenne giusto in tempo per essere celebrato durante il viaggio pastorale, in una perfetta combinazione di tempi e modi che neanche a farlo apposta… Miracolone subito messo in osservazione ecclesiale, e subito considerato utile alla bisogna. In realtà la suora non si affidò poi tanto al miracolo, dato che si sottopose a cobaltoterapia dal 1979 al 1982 presso il reparto oncologico dell’ospedale San Martino di Genova. Il professor Toma, che l’ebbe in cura, protesta: «È incomprensibile e inaccettabile che si sia giunti a una tale conclusione a prescindere dalle mie considerazioni cliniche e scientifiche… Noi tentammo un trattamento combinato: iniziammo con la chemioterapia, quindi radioterapia addominale sulle stazioni linfonodali (a Y rovesciata) e quindi di nuovo chemioterapia. Fu così che osservammo, nell’arco di circa 2 anni, una risposta clinica completa… Non fu un miracolo, ma un evento scientifico. Siamo stati forse bravi noi oncologi, sperimentatori a quei tempi di nuove terapie. Dal punto di vista religioso il miracolo deve essere istantaneo. La suora, che fu encomiabile come paziente, mi disse solo nel 2004 che le sue consorelle le avevano messo una reliquia nel letto». Ah, perbacco. Ma tanto, chi l’ascolta, questo? È solo il medico che l’ha guarita… Mica uno che sa stare in piedi senza testa!
Il processo diocesano di Canonizzazione inizia il 16 febbraio 1991, giusto un paio di mesi dopo la enciclica Redemptori Missio, sulla necessità di evangelizzare l’Europa dell’est da poco liberatasi dalle dittature marxiste, e giusto nell’anno in cui Giovanni Paolo II pronuncia forse la prima volta in assoluto, la locuzione “radici cristiane” nel discorso al Simposio Presinodale: “La cultura europea non potrebbe essere compresa fuori dal riferimento al Cristianesimo: il Vangelo ne costituisce un fondamento. Plasmata dalla Parola vivificante di Dio, l’Europa ha svolto nella storia del mondo un ruolo unico, e la sua cultura ha fortemente contribuito al progresso dell’umanità….Oggi si presenta una nuova Europa, liberata dalle oppressioni ideologiche. Occorrerà discernere meglio i fondamenti culturali di questo rinascimento. Gli interventi politici ed economici, per quanto necessari, non sono sufficienti a guarire l’Europeo ferito, culturalmente reso più fragile e indifeso. Egli non ritroverà il suo equilibrio e il suo vigore se non nella misura in cui rinnoverà, con le sue radici profonde, le sue radici cristiane”.
Il processo fu riconosciuto valido il 27 maggio 1994. Si apre così l’iter romano del processo. Nel 1995, viene nominato un nuovo postulatore nella persona della dott.ssa Silvia Monica Correale, di nazionalità argentina, che fa progredire alacremente la causa. Nel 2007 il nuovo papa Benedetto XVI, ricevendo in udienza privata il cardinale José Saraiva Martins, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, autorizza la medesima Congregazione a promulgare il decreto riguardante il Martirio dei Beati; La guarigione di suor Levote viene riconosciuta come “inspiegabile dalla scienza medica” e poi come miracolo. Papa Benedetto XVI il 20 dicembre 2012 autorizza la Congregazione a promulgare il decreto “super miro” (sul miracolo).
Papa Benedetto è apertamente anti-turco – dichiarando inopportuno ed antistorico l’ingresso della Turchia nella UE- ed anti-islamico: la sua lectio magistralis a Ratisbona, nel 2006, nella quale citava un passo di Manuele Paleologo, imperatore bizantino (che caso!) su Maometto e sugli Ottomani (passo non del tutto pacifico…), scatena reazioni anche violente in Turchia e nel mondo arabo.
Inoltre insiste in modo quasi quotidiano, quasi compulsivo, sul concetto di radici cristiane (“l’Europa riscopra le sue radici cristiane”; “l’Europa sappia alimentarsi dalle sue radici cristiane”; “l’Europa viva secondo le sue radici cristiane”; “alcuni contestano con stupefacente regolarità la realtà delle radici religiose europee. E’ diventato di moda essere smemorati e negare le evidenze storiche. Affermare che l’Europa non ha radici cristiane, equivale a pretendere che un uomo può vivere senza ossigeno e senza nutrimento”… Le citazioni si sprecano, sono centinaia)
Silvia Monica Correale ha dunque le strade aperte per la sua opera di postulatrice; ha inoltre incontrato fin dal 1998 l’allora cardinale Bergoglio, e da allora, ha collaborato con lui come postulatrice per alcune cause di beati proprio di Buenos Aires, la capitale sudamericana di cui Bergoglio era vescovo e cardinale. Anche questo sarà certamente un caso, ma quando Benedetto XVI, l’11 febbraio 2013, ha annunciato al mondo la sua rinuncia al soglio pontificio, sorprendendo tutti, ha anche annunciato la santificazione degli Ottocento e ha invece ignorato la causa di canonizzazione di Giovanni Paolo II. E questa è stata una ulteriore sorpresa per i prelati polacchi, ed un gradito omaggio agli italiani e alla teologa argentina. Ed è il papa argentino eletto subito dopo, che ha celebrato l’atto finale di un percorso da lui non iniziato14, che segna una precisa direzione verso un obiettivo perseguito dal Vaticano da decenni, quello della identificazione tra Europa (e nello specifico, la UE) e una concezione cristiana, come abbiamo detto all’inizio di questo lungo articolo, di carattere cattolico, apostolico, romano.
In sostanza, quello che fu un episodio di guerra e di saccheggio, avvenuto in un contesto geopolitico frastagliato e lontano anni luce dal nostro, pare essere ciclicamente diventato il ‘simbolo’ perfetto, l’archetipo necessario all’irrinunciabile arroganza temporale della chiesa cattolica romana, utile più di ogni altro per enfatizzare, simboleggiare e legittimare, vista proprio la narrazione e il narrato, una sorta di natura cristiana dell’Europa, scelta e benedetta dal sangue di chi si è immolato con un estremo atto di fede, condivisa e ‘naturale’ così come, alla bisogna, dovrebbe essere condivisa e naturale la sovranità della chiesa cattolica (e non solo cristiana) sull’Europa. Ed è per questo, probabilmente, che il papa più gelidamente a-storico che la chiesa abbia mai avuto, Ratzinger, ha pensato di rispolverare in chiave anti-islamica la trista vicenda come suo ultimo, finale, atto da pontefice.
- Per quanto alcuni testi (cit. Bibliotheca Sanctorum) elenchino circa 20 mila tra santi e beati, assai più attendibile, anche perché tiene conto delle esclusioni e delle revisioni storiche, appare il dato fornito dal Martyrologium Romanum che indica santi e beati nel numero di 9.900. Essi devono essere intesi come il complesso dei santi riconosciuti, perché, benché spesso si canonizzino gruppi interi, il Martyrologium, in questi casi, accanto al nome del santo (o dei santi) noto/i aggiunge “…e tot compagni” ; da ricordarsi però che la dottrina cattolica precisa che a noi viventi non è dato sapere l’effettivo totale dei santi o delle anime sicuramente giunte in paradiso, che son pur sempre anime sante: noi conosciamo solo quelli, appunto, riconosciuti, non escludendo che possano essere molti di più, secondo il “volere di Dio”. [↩]
- Quasi tutte le agiografie parlano di un totale di morti otrantini che va dai 12 ai 22 mila. Cifre impossibili, se si pensa che Otranto all’epoca contava 1000 fuochi e quindi, verosimilmente, 5-6000 abitanti. [↩]
- Giorgio Castriota Skanderbeg fu l’eroe della resistenza cristiana albanese nei Balcani, capace di infliggere tremende sconfitte agli eserciti del Sultano dal 1444 al 1468. Solo alla sua morte per malaria i turchi riuscirono ad occupare l’Albania e ad affacciarsi sull’Adriatico. Figura misconosciuta nell’Italia di oggi, nonostante la sua imponente statua equestre a Roma, fu un eroe popolarissimo e leggendario in tutto l’Occidente cristiano per molti secoli. [↩]
- In particolare sono stati determinanti i convegni e gli studi svoltisi nel 1980, nel 1986 e nel 2007 con i contributi e le documentatissime relazioni di esperti italiani quali il prof. G. Andenna, il prof. C. Damiano Fonseca , l’italo-tedesco Houben Huber, dello storico turco Nejat Diyarberkirli, il francese Charles Verlinden ed altri ancora, basati – finalmente- anche su testi turchi. [↩]
- Sulla lapide di Maometto II, egli fece scolpire la frase: volevo conquistare Rodi e l’Italia [↩]
- Il più importante episodio della guerra fu l’assedio di Colle Val d’Elsa da parte degli aragonesi-napoletani, assedio durato 52 giorni, e rimasto nell’epica fiorentina per secoli per la eroicità dei resistenti, che tennero testa al preponderante esercito nemico di don Alfonso duca di Calabria con una tale determinazione che lo stesso li onorò e parzialmente risarcì dei danni. Firenze, come premio, concesse la piena cittadinanza ai colligiani e ne fortificò l’abitato con le poderosa mura tuttora visibili. [↩]
- In realtà, è solo nel 1907 che una apposita convenzione vieta il sacco dei centri urbani. È la Convenzione Internazionale dell’Aia su leggi ed usi della guerra terrestre, stipulata tra 44 capi di stato di quasi tutti i paesi indipendenti di allora, che, nel punto che a noi interessa, recita, all’art. 28: “È vietato di abbandonare al saccheggio una città o località anche se presa d’ assalto.” Notare la forza della espressione anche se: fino a quel momento, una località presa d’assalto, poteva essere lasciata al saccheggio del tutto legittimamente [↩]
- È il caso in questione: come raccontarono alcuni superstiti, il pascià, inviò a Otranto un interprete, proponendo una resa a condizioni vantaggiose: se non avessero resistito alla Mezzaluna, uomini e donne sarebbero stati lasciati liberi e avrebbero potuto rimanere senza alcun danno in città, ovvero andare dove avessero ritenuto più opportuno.
La risposta al legato musulmano viene data da uno dei maggiorenti della città, il vecchio Ladislao De Marco: «Se il Pascià vuole Otranto, venga a prenderla con le armi, perché dietro le mura ci sono i petti dei cittadini». I capitani, inoltre, «ordinarono al messaggero di non tornare una seconda volta e minacciarono la morte a quei cittadini che avessero fatto parola di resa. Quando arrivò un secondo messaggero che riferiva le stesse proposte, lo trafissero con le frecce» ; poi, «per levare ogni sospetto, pigliarono le chiavi della città, cioè delle porte di essa e quelle presente tutto il popolo che le vedesse di sopra d’una torre le buttarono in mare». Tale comportamento era del tutto imperdonabile, ed infatti non fu perdonato. [↩] - È il plenipotenziario dei duchi d’Este che riporta, nei suoi dispacci a Ferrara, le parole esatte di Ferrante d’Aragona relative al vescovo [↩]
- Parrebbe essere questa la origine dell’espressione italiana “portoghese” in riferimento ad uno scroccone o approfittatore. [↩]
- Tutti concetti abbondantemente riutilizzati dal fascismo nei decenni successivi. Ricordiamo come la guerra di Etiopia venne presentata sia come guerra per ripristinare il dominio di Roma (“L’Italia ha finalmente il suo impero. Impero fascista, perché porta i segni indistruttibili della volontà e della potenza del Littorio romano” B. Mussolini, annuncio della conquista di Addis Abeba, 9 maggio 1936) sia come guerra cristiana contro infedeli (“benedico le valorose armate che aprono le porte dell’Etiopia alla fede cattolica e alla civilizzazione di Roma” Cardinale di Milando A. I. Schuster, omelia in Duomo, 27 ottobre 1935), ignorando a bella posta che gli abissini erano e sono cristiani, per la precisione copti [↩]
- Parole estratte dai quattro discorsi pronunciati da Giovanni Paolo II durante l’intera giornata del 5 ottobre 1980 [↩]
- “Nel mese di agosto del 1979 mi accorsi di avere una massa a livello addominale. La previsione di vita fu di circa 6 mesi. L’urna con le reliquie dei beati Martiri di Otranto fu deposta sul mio letto per chiedere la guarigione. Alla fine della chemioterapia, il 22 luglio 1981, l’indagine medica dimostrò che non c’era più malattia metastatica”. [↩]
- A dire il vero, nella omelia di papa Francesco del 12 maggio 2013, pronunciata in piazza San Pietro in occasione della santificazione degli Ottocento, non si riscontrano accenni alle radici cristiane né alla militanza di fede. C’è un accenno alla resistenza, quello sì. Forse il primo papa non europeo ha voluto dare un taglio diverso a questa canonizzazione. Forse: è ancora presto per dirlo. Ecco il testo dell’omelia nella parte riguardante gli otrantini: “Oggi la Chiesa propone alla nostra venerazione una schiera di martiri, che furono chiamati insieme alla suprema testimonianza del Vangelo, nel 1480. Circa ottocento persone, sopravvissute all’assedio e all’invasione di Otranto, furono decapitate nei pressi di quella città. Si rifiutarono di rinnegare la propria fede e morirono confessando Cristo risorto. Dove trovarono la forza per rimanere fedeli? Proprio nella fede, che fa vedere oltre i limiti del nostro sguardo umano, oltre il confine della vita terrena, fa contemplare «i cieli aperti» – come dice santo Stefano – e il Cristo vivo alla destra del Padre. Cari amici, conserviamo la fede che abbiamo ricevuto e che è il nostro vero tesoro, rinnoviamo la nostra fedeltà al Signore, anche in mezzo agli ostacoli e alle incomprensioni; Dio non ci farà mai mancare forza e serenità. Mentre veneriamo i Martiri di Otranto, chiediamo a Dio di sostenere tanti cristiani che, proprio in questi tempi e in tante parti del mondo, adesso, ancora soffrono violenze, e dia loro il coraggio della fedeltà e di rispondere al male col bene.” [↩]