La risposta è: 42*

*da “Guida Galattica per autostoppisti” di D. Adams

di Marco Ottanelli

Quanti giorni riesce a lavorare, al massimo, un uomo, in un ambiente dove nulla coincide con le sue aspettative, e dove egli non coincide con alcuna delle aspettative del datore di lavoro? La risposta è: 42.

Capitolo I: le selezioni e l’assunzione.

Una popolosa città della Toscana, qualche anno fa.

Una Grande Catena Commerciale fa un bando d’assunzione per circa 150 posti di lavoro da svolgersi in loco, in ogni posizione e ruolo. Presento la domanda, come migliaia e migliaia di miei concittadini. Dai dati resi pubblici anche dai giornali, è ovvio che è un fenomeno sociale: la necessità di un posto fisso ha portato moltitudini di uomini e donne di tutte le età e di tutte le condizioni (disoccupati, sottoccupati, precari, anche già impiegati ma insoddisfatti, madri e padri di famiglia, studenti, immigrati, laureati, diplomati, con licenza elementare…) a tentare la sorte per lavorare in un supermercato.

Dopo una prima e sommaria sfrondata delle domande e dei curricula, che riduce i candidati di circa la metà, veniamo convocati (a gruppi di circa 1500-2000 persone al giorno) in un albergone alla estrema periferia, dove siamo accolti dalla Agenzia-Di-Milano-Che-Fa-Le- Selezioni, un fior di ditta specializzata con consulenti, psicologi, esperti giovanotti in cravatta e doppiopetto e signorine in tailleur color pastello, che prendono in carico il compito di trovare la persona giusta per il posto giusto, incaricati e profumatissimamente retribuiti dalla Grande Catena Commerciale: per capirci, comprenderci, collocarci. Wow.

Ci vengono consegnati moduli e moduli da riempire. Sono centinaia di domande sintetiche, tipo sì o no, su molteplici e variegati aspetti di noi stessi: gusti, abitudini, propensioni, attitudini, esperienze, capacità, aspirazioni, e di tipo “vero o falso”, che sanno un po’ di test di cultura generale. I fogli si accumulano sui tavoli, le domandine nella testa. Mi giro, e vedo volti di tutte le razze, di tutti i colori, i saloni sono pieni, ci si appoggia su ogni superficie piana per scrivere, e lentamente i fiati saturano l’ambiente. Siamo troppi, penso tra me e me. Troppi. Non è normale. E segno crocette.

Una settimana dopo ricevo la comunicazione che ho passato il turno. Anche stavolta siamo stati dimezzati, ci rivedremo tra quindici giorni presso un altro albergone per una seconda prova.

E la seconda prova arriva. Stavolta si tratta di due fasi: nella prima dobbiamo riempire una sorta di dettagliato questionario (stavolta però per esteso, senza crocettine) su cosa sappiamo fare, su cosa vorremmo fare, su quali potenzialità abbiamo e su quali posizioni, coerentemente con quanto detto, vorremmo occupare. Segue lista di posizioni: magazziniere, pulizie, direttore, dirigente, macellaio, impiegato….Cerco di spiegare ben bene le mie capacità, le lingue straniere che so parlare, racconto di me e del mio potenziale… Alcuni scrivono in modo compulsivo uscendo letteralmente fuori dai margini, altri, soprattutto stranieri con evidenti problemi con l’italiano, si guardano in giro, sperduti.

Ci vuole un’oretta per finire, poi si passa alla fase due: i test psicologici! I test di intelligenza! Quelli con i numeretti da mettere in serie, e le figurine bianche e nere, e la logica. Tra somme e indovinelli, tra “trova l’intruso” e “metti in ordine questi solidi”, si fa sera. Consegno tutto, e aspetto.

Un mese dopo, e dopo la solita eliminazione del 50% dei candidati (i numeri sono comunicati nelle convocazioni), ci ritroviamo ancora in tantissimi in un altro albergo ancora. Veniamo divisi per gruppi, in stanze diverse, e ci vengono riproposti altri (e più complessi) test attitudinali. Stavolta i disegnini sono a colori, le soluzioni di gran lunga meno semplici, ci sono riferimenti a cultura e nozionismo meno banali…mi barcameno, e alla fine, dubitando di qualche risposta, consegno. L’Agenzia-Di-Milano-Che-Fa-Le-Selezioni ci trasferisce nel salone, stiamo stretti ma ascoltiamo in silenzio, e giovanotti e signorine ci parlano del vero significato del lavorare nella Grande Catena Commerciale: è un’aspirazione, dobbiamo sentirci parte di un tutto, ognuno ha il suo prezioso ruolo, poi fanno gli occhiacci e ci dicono che è una cosa seria, che ci viene chiesto impegno, dedizione, costanza. Qualche domanda? Nessuno alza la mano. Si va a casa, ci rivedremo, la metà di noi, tra quindici giorni.

Sono tra i fortunati. Vengo ammesso alla selezione, quella vera, quella seria. Divisi in gruppetti di 60 persone circa, ci fanno parlare, rispondere a domande, ci chiedono di presentarci, e di dire (come già avevamo fatto per scritto) cosa sappiamo fare, e cosa vorremmo fare nella Grande Catena Commerciale. Sorridenti milanesi incravattati ci ascoltano, talvolta interrompono, fanno qualche domanda aggiuntiva, stimolano. Emergono chiaramente le diverse personalità presenti: c’è lo sfrontato, il timido, il colto, il sempliciotto, il timorato, il sicuro di sé…vedo prendere appunti e segnare indicatori su PC portatili. Tutto è estremamente serio e professionale.

Dopo 15 giorni, finalmente un colloquio! In lunghissime file ci accomodiamo a scrivanie dove una piccola commissione ci fa domande, ci chiede di noi, insomma, il classico colloquio di lavoro. Dobbiamo tornare il pomeriggio, però, per riprendere le selezioni. Mentre mangio un panino nell’attesa, mi chiedo quanti sono stati coloro che hanno abbandonato, e quanti coloro che son stati scartati, in tutto questo tempo. Pensavo che trovare lavoro in un supermercato fosse più facile, ma qui, caspita, stanno facendo le cose in grande.

Il pomeriggio è una sorpresa: veniamo divisi in gruppetti di 20 circa, e ci fanno fare i “giochi di ruolo”, un test dinamico per valutare le nostre personalità e le nostre interattività. Ne ricordo in particolare uno: dovevamo fingere di essere la redazione di una televisione nazionale. Ognuno di noi (pescando a caso un bigliettino) avrebbe impersonato un settore della fantomatica TV. A me capitò “redazione economia e finanza”, e, in quella veste, avrebbe dovuto convincere tutti gli altri a dedicare l’unica ora libera del palinsesto immaginario al proprio argomento di competenza. Avevamo 20 minuti. Per la cronaca, la decisione non fu presa, ma i selezionatori ebbero modo di vedere chi era leader e chi gregario, chi collaborativo e chi tendeva ad imporsi, chi assertivo e chi negativo… di questi giochi ne facemmo tre, per quanto quello della TV fosse il più vivace.

Passo anche questa, e vengo riconvocato, stavolta presso le strutture stesse della Grande Catena. Ci sono dei tizi (piuttosto antipatici, se ricordo bene) della Catena e i soliti incravattati della Agenzia-Di-Milano-Che-Fa-Le-Selezioni. Ancora un colloquio. Ancora alla ricerca delle motivazioni. Tra candidati cominciamo a ri-conoscerci. C’è veramente un mondo, con me: disperati che tentano di fuggire da lavori e turni infernali, pomposi neolaureati che pretendono la carriera manageriale, modeste signore anzianotte, disoccupati cronici con più delusioni che speranze…ed è la speranza ad unirci, la speranza di un lavoro nor-ma-le, quello fatto di stipendi e ferie regolari, di buste paga e assicurazione sanitaria…di sicurezza, insomma, di tranquillità. Sento storie di tutti i tipi, di difficoltà, di paura del futuro, di famiglie a carico. Mi commuovo (nel senso etimologico del termine) un po’.

Ci vogliono più di 30 giorni, ma alla fine arriva la risposta: MI ASSUMERANNO! Sono felicissimo, e vado all’appuntamento. Vengo accolto da una signora che mi fa firmare un pre-contratto. Molto generico, ma firmo, firmo, che mi frega, ce l’ho fatta! Con i compagni è tutto uno stringersi le mani, pacche sulle spalle, complimentarsi, anche se non abbiamo alcun dettaglio sul nostro destino.

Ci richiamano uno alla volta, e ci rifanno un colloquio (ma…adesso?? Dopo aver firmato?), poi ci informano del ruolo che ci spetta: io sarò magazziniere.

Magazziniere? Come!… avevo indicato tutt’altro, nelle domande, nei colloqui, nelle aspettative, nelle qualifiche…cioè, perché mi avete testato la conoscenza dell’inglese e dello spagnolo, se poi devo scaricare bottiglie e scatolame? “Lo sa usare il muletto?” “No…” “Non importa, imparerà” “Sì, imparerò…” Esco e vedo tante facce perplesse. Troppe. Mi fermo a parlucchiare, e ci sono diverse insoddisfazioni. Solo due che facevano i panificatori hanno avuto il lavoro come panificatore, ed un ex macellaio come macellaio.

L’appuntamento è per il giorno dopo, comincia “l’addestramento”: leggi sulla sicurezza, leggi sul lavoro, leggi sulla salute, e spiegazioni dell’ambiente e del ruolo. Ci rivediamo (siamo nella Grande Struttura Centrale della Grande Catena Commerciale) tutti emozionati, ed ascoltiamo. Ci leggono le leggi in questione, ci spiegano con estrema attenzione come chinarci e sollevare pesi (prendete nota di questi passaggi, ne riparleremo), ci istruiscono sulla gerarchia interna ed insistono quasi maniacalmente su come e quanto dobbiamo essere gentili e disponibili verso i clienti. Ricordo perfettamente le istruzioni: “qualunque cosa stiate facendo, se un cliente si avvicina, lasciate tutto e dedicatevi a lui. Se vi chiede dove si trova un prodotto, non limitatevi a indicarglielo, ma accompagnateli fino alla corsia giusta. Sappiatelo, la sfida per il futuro si baserà su questo, sulla fidelizzazione del cliente, e la vostra disponibilità deve essere assoluta”.

Registro mentalmente, con cura.

Dopo passiamo alla assegnazione presso i luoghi fisici di lavoro. Dunque, sappiamo che lavoreremo in questa città, ma non sappiamo esattamente in quale supermercato: tu dove abiti, ah, vicino a me, potremmo andare insieme, casomai… ma la realtà è diversa. Quel giorno (nessuno ce lo aveva detto prima) ci viene comunicato che faremo un periodo di formazione presso strutture in altre province. 3/4/6 mesi a 70, 90, 100 km di distanza. Tutti ammutoliamo. Il gelo è perfettamente percepibile. I signori della Agenzia-Di-Milano-Che-Fa-Le-Selezioni se ne accorgono, e chiedono cosa c’è che non va. Parla, timidissima, una signora di circa 55 anni, cicciona e dolcissima. Non ha la macchina, come fa ad andare e tornare dall’ipermercato al quale è stata assegnata, sperduto in mezzo alla campagna, a 100 km da casa sua? Altri sollevano simili perplessità. Alcuni si sentono autorizzati a dire che non avevano fatto domanda per il ruolo al quale sono stati assunti, c’è uno che aveva esplicitamente escluso la pescheria, e deve lavorare proprio lì, e non è convinto… Ci chiedono quanti di noi avessero indicato una mansione che non è stata rispettata. Si alzano molte mani. Il pendolarismo spaventa madri e giovanissimi, così come i più “anziani”… c’è chi si è licenziato per accettare questo nuovo impiego, ma non pensava di fare passi all’indietro, in peggio… insomma, c’è confusione, nervosismo. Uno dei selezionatori mi fissa e mi chiede: “E lei, che pensa?”….balbetto che non pensavo di fare il magazziniere, che mi va benissimo, ma non era quello per il quale mi sento più qualificato, e che la locazione, a 70 km, mi pare un po’ una sorpresa… ma va bene, va bene tutto. “Lo sa che deve essere lì al lavoro alle 5 del mattino?”. No, non lo sapevo. “A volte anche alle 4?” Ok, sarò lì alle 4. La stanza rumoreggia. Tutti vogliono saperne di più. La riunione viene sciolta, saremo contattati singolarmente.

Usciamo nel piazzale, ci troviamo in una cinquantina. Quante delusioni! Quanti piccoli grandi sconforti… comincio a chiedere a tutti “cosa ti fanno fare, che lavoro farai’” e comincio ad avere un sospetto. Vedo uscire un altro scaglione, anche loro discutono, rifaccio a tutti la stessa domanda, fotografo facce e memorizzo storie personali e ruoli… Torno a casa, telefono a quelle poche persone con le quali ci siamo scambiati i numeri, tiro le somme, e, come poi vedrò concretamente sul luogo di lavoro, i miei sospetti erano più che fondati. Siamo stati assegnati ai nostri incarichi per “genere”.

Tutti gli uomini dai 18 ai 50 anni sono diventati “magazzinieri”. Senza distinzione di curricula, di esperienze, di titolo di studio. Tutte le belle ragazze sono state mandate all’ufficio informazioni, al desk, all’accoglienza. Le donne giovani e di aspetto decente sono da oggi cassiere. Non importa cosa hanno fatto prima, o se hanno fatto specifica domanda. Tutte le donne di oltre i quarant’anni e le bruttine di ogni età sono nel reparto pulizie leggere o a mettere i prodotti sugli scaffali. Laureate, diplomate, indifferentemente a scope e stracci. Qualche qualificato come panettiere è ai forni. I macellai, alla macelleria. Qualcuno che aveva lavorato nella gastronomia, è alla gastronomia. Una cuoca farà la cuoca. Tutti gli stranieri, uomini e donne, vecchi e giovani, sono al comparto pulizia pesanti e pulizie di magazzini e parcheggi.

Sono incredulo e perplesso. Ma cosa diavolo significa tutto questo? Come è possibile che sia così dannatamente banale? Offensivo e banale? Parlo con una ragazza somala, laureata in sociologia. Voleva far parte del livello manageriale: deve dare lo straccio in terra. È arrabbiata. La signora cicciotta quasi piange, davvero non sa come raggiungere il luogo di lavoro.

A cosa diavolo sono serviti quei mesi di selezione? Perché tutti quei test? Quanto diamine è costata la consulenza della Agenzia-Di-Milano? Perché mi hanno fatto fare il finto redattore di una finta televisione per un finto palinsesto, se poi devo scaricare in magazzino? E perché quelle ragazze carine – brave, meno brave, sveglie, meno sveglie – devono andare alle informazioni, tutte, solo loro? C’era bisogno di imbastire tutto questo circo della ipocrita scientificità per mandare gli extracomunitari a lavare i bagni? C’era bisogno di fare colloqui su colloqui per mandare le signore attempate a rifornire i reparti di mandarini e pomodori? C’era bisogno dei giochi di ruolo per sapere che un macellaio lavorerà con le carni e un fornaio farà il pane? E perché quel poveraccio è finito in pescheria, se aveva chiesto tutto tranne quello?

Queste non sono selezioni, ma discriminazioni. Discriminazioni razziali, di genere, di età, di aspetto. Ripasso mentalmente tutto il ciarpame buonista e democratico che la Grande Catena Commerciale riversa ogni giorno sui suoi clienti, e mi appresto a cominciare il mio nuovo lavoro. Come sarà, come mi troverò, quanto durerà? Ma questa è un’altra storia. Che merita un capitolo a sé.

Capitolo II: il lavoro, finalmente. Il licenziamento, infine.

Ci richiamano presso la sede centrale della Grande Catena di Distribuzione per “prendere le consegne”, una lettera da consegnare all’ipermercato di destinazione, l’indirizzo esatto, un nome di riferimento ecc ecc. Ci viene annunciato che il previsto periodo di assegnazione fuori città non sarà degli annunciati 3/4/6 mesi, ma, a causa del protrarsi dei lavori per la costruzione dei punti vendita cittadini, esso potrà essere esteso a 8 mesi, un anno, un anno e mezzo. Le facce attorno a me sono scure. La signora cicciotta che era senza auto, vengo a sapere da una sua amica, ha già mollato, non avendo trovato alcuna soluzione possibile per raggiungere il luogo di lavoro. A seguito di questo annuncio, almeno in quattro si fanno avanti e rinunciano. Vengono invitati in uno stanzino, non li rivedrò mai più.

Io ed altri, quelli che andranno (con ruoli diversi) nell’ipermercato a 70 km da qua, veniamo convocati in una sala, dove ci viene mostrato un filmino sulle leggi della sicurezza, e ancora su come sollevare pesi, e su quanto si debba essere gentili con la clientela. “Recepito ragazzi?” Recepito!

Primo giorno di lavoro: entro ad un orario rilassato, alle dieci di mattina. Vengo accolto dal direttore, dal Caporeparto Buono e dal Caporeparto Cattivo, che mi fanno tutto un discorso sul valore del lavoro come impegno di grande portata, missione sociale ecc ecc, e dai diffidentissimi colleghi. Sono il “nuovo”, e ovviamente mi studiano.

Vado al magazzino, e la prima cosa che mi viene chiesta è di operare a muletti e montacarichi. Solo che io non li so usare…il Caporeparto Cattivo si arrabbia molto con me: se non so manovrare il muletto, perché diavolo sono lì? In effetti, rispondo timidamente, me lo domando anche io: l’ho detto e ripetuto, ai colloqui… Ma non c’è tempo da perdere. Camion e tir arrivano in continuazione, e non si fa in tempo a scaricarne uno, che giunge il seguente. La merce viene portata in un angusto magazzino, troppo piccolo evidentemente, per cui colli e confezioni si accatastano l’uno sull’altra. Quando devono essere portate delle merci agli scaffali, si deve quindi smontare tutta una montagna di roba, prendere il prodotto in questione, e rimontarla tutta, mentre arriva ancora altra roba da posizionare, cercando di indovinarne la priorità, in un’ approssimazione di sopra-sotto-davanti-dietro che purtroppo non ha quasi mai senso. Tutti sbuffano e imprecano, ma non pare ci sia nessuno che organizzi diversamente. Spesso si degenera in litigi per precedenze e priorità.

Dopo aver scaricato i container ed aver riposto le merci in magazzino, dobbiamo ovviamente riporla sugli scaffali, ed è questo il compito più ossessivo: ci sono decine di persone che con frenesia ricolmano gli spazi che la famelica clientela provoca nella disposizione dei prodotto. Il mandato è chiaro: non lasciare mai uno scaffale sguarnito ed essere rapidi, rapidi, rapidi. Ogni spazio deve essere immediatamente colmato.

Imparo prestissimo che ci sono diversità sostanziali tra le tipologie di merce. La pasta, gli inscatolati (pelati, ceci, fagioli, tonno) hanno bisogno di un afflusso continuo dai magazzini, l’acqua (la cosa più pesante e massacrante da posizionare) subisce ondate di saccheggio alternate a periodi di strana tranquillità, vino e alcolici hanno picchi il fine settimana, detergenti e saponi vanno calmi, non altrettanto profumi e cosmetici, che possono finire in un lampo. Ma c’è una categoria di prodotti che viene costantemente, continuamente, freneticamente, convulsamente, compulsivamente acquistata, accaparrata come la farina nell’assalto ai forni: le merendine. Sì, quelle schifezze di grassi idrogenati, di zuccheri, gonfie di ogni additivo, con le loro confezioni coloratissime ed il loro mille e mille gadget e regalini. Non facevamo in tempo a collocarli, che, nella loro infinita, e fino a quei giorni a me completamente sconosciuta, varietà, sparivano in un lampo. Madri nevrotiche, bambini piagnucolosi, padri nervosissimi si accalcavano attorno a quelle merendine con bramosia, colmando carrelli interi di questi dolcetti dai nomi fantasiosi. Un via vai che cominciava alle 8.00 del lunedì per terminare alle 21.00 del sabato. E noi, di pari passo, a correre in magazzino a rifornire. Terribile.

Tra i colleghi c’è Mario (nome, questo, non reale, come tutti gli altri), che è un toscanaccio simpatico ed espansivo. È anche di una volgarità incontenibile, e si rivolge alle donne, a tutte le donne, con appellativi e scherzi che vanno ben al di là del lecito. La sua continua e becera logorrea riguarda esclusivamente gli organi sessuali e i fondoschiena delle colleghe, delle signore delle pulizie, a volte delle clienti, e nei suoi lazzi ci sono sempre ideali accoppiamenti con tutte le presenti, in tutte le posizioni. Saluta chiedendo dettagli sullo stato delle parti intime, facendo apprezzamenti ai mariti e fidanzati per l’uso che ne fanno, e inneggiando alle sue imprese, e all’uso che ne farebbe lui. Una ragazza chinata per raccogliere una scatola deve necessariamente sorbirsi tutto il suo kamasutra di campagna, e una donna affaticata che sospira è indicata rumorosamente come lasciva e libertina (con però ben altri termini). Descrizioni di coiti ipotetici e di trattamenti a precise zone del corpo umano si accavallano senza sosta.

Le colleghe ridono pazienti: “Oh Mario, ven via, o icchè tu dici!” (e chi è toscano sa perfettamente quale intonazione usino), poi, discretamente, si girano, e fanno smorfie di disgusto. Dopo una settimana prendo il coraggio e chiedo ad un paio di loro, una anzianotta, l’altra giovane e semplicissima, se quel continuo scherzare fosse divertente. Apro una cateratta: non solo loro, ma anche altre ragazze mi circondano, si sfogano, quasi piangono, non ne possono più, si sentono umiliate, offese, violate, si vergognano e si arrabbiano impotenti. Sono imbarazzatissimo, non so che fare, provo solo a suggerire: “diteglielo, non ridete, rispondetegli per le rime…” e poi, scappo.

Mario vede la scena, da lontano, forse capisce qualcosa e la sera mi dice: “ma te non scherzi mai con quelle donne?” Raccolgo un po’ di faccia tosta e gli spiego che no, non in quel modo, non in quei termini, che forse è un po’ troppo diretto. Mario mi guarda storto, e mi chiede: “insomma i miei scherzi non ti piacciono?” ed io rispondo: “no, ma soprattutto non piacciono a loro”. Cala il gelo, quasi minaccioso Mario mi saluta. Temo litigi, ritorsioni, scosse. Ma nei giorni successivi succede l’incredibile: sento un paio di colleghe che gli rispondono per le rime, senza acrimonia, ma decise. Sento una di loro dirgli chiaro e tondo che in quel modo si sentiva violata e maltrattata. Mario non solo non si oppone, anzi, abbassa i toni. Insomma, come per incanto, il perverso meccanismo si rompe. Ma…è merito mio?? Non ci credo. Non può essere vero! O almeno questo penso fino a quando la signora anzianotta e materna, che chiameremo Giovanna, viene da me, durante la pausa caffè e mi dice “grazie, ci hai aiutate”. E Mario? Diosanto, mi odierà! No, ed anche questo è incredibile: da quel momento mi aiuta, mi coccola, mi sostiene nel lavoro come non mai. È tutto molto bello.

Meno bello è l’atteggiamento del Caporeparto Cattivo. Mi segue passo passo, impreca sempre perché non so usare il muletto (nessuno mi fa far pratica), se chiedo dove è un certo prodotto grugnisce, e non risponde. Mi sprona malamente (“forzaaaaaaa svegliaaaaaaaaaa veloceeeeeee”) senza mai pronunciare il mio nome. Caporeparto Buono invece mi da consigli, mi spiega alcuni aspetti del lavoro, se ho un dubbio me lo chiarisce. Non so se sia il gioco del poliziotto buono e del poliziotto cattivo, ma sinceramente mi dà ai nervi. Se è di turno Cattivo cerco di girare al largo, e forse questo mio atteggiamento difensivo si nota.

Oltre a scaricare e posizionare la merce, abbiamo altri compiti: schiacciare le confezioni vuote ed i cartoni in un apposito enorme compattatore. Solo che nessuno lo fa. Non è un compito particolarmente gravoso, eppure non so perché non piace. Allora lo faccio io. Giro per il negozio, raccolgo tutte le scatole che trovo, le porto fuori dove sono accumulate a centinaia, e le compatto. Caporeparto Buono mi ringrazia perché provvedo, Caporeparto Cattivo mi rimprovera per il tempo che ci impiego. Non riesco a capire se devo continuare, o smettere.

Inoltre, dobbiamo gettare via tutti i prodotti difettati. Uno spreco enorme. A parte i quintali di frutta, carne, pesce e dolci e pane che vengono buttati tutte le sere – una cosa da far piangere con le lacrime – in più si devono eliminare anche tutti i cibi assolutamente commestibili ma poco presentabili. Se in una confezione da tre yogurt uno ha subito un urto che lo danneggia, si devono buttare tutti e tre. Se una scatola di pasta è appena scalfita in un angolo, deve essere gettata. Se si rompe una bottiglia di birra in un insieme da sei, anche le altre cinque seguiranno la stessa sorte. Giovanna mi racconta che qualche anno fa tutto era diverso: ai dipendenti venivano venduti gli scarti al 50% del prezzo. Si buttava via molto meno, anche perché molto meno veniva ammassato nei reparti del fresco, mentre oggi la sola parola d’ordine pare sia sovrabbondanza.

Io ci metto tutto l’impegno del mondo, in realtà il lavoro non mi piace, ma ne ho uno stretto bisogno. Quello che mi stanca più di ogni cosa è l’orario. Svegliarsi alle quattro di mattina, o alle tre e mezzo, a volte, e guidare per un’ora o più, e, dopo aver scaricato quintali di cibi e bevande, riprendere l’auto e (stavolta con il gran traffico del pomeriggio) ri-guidare due ore, due ore e mezzo…Più passano i giorni, più mi sento stanco, e la domenica di riposo non basta a ricaricare le batterie del mio corpo. I colleghi arrivano al magazzino da un raggio di massimo 10 km. Io sono l’unico “straniero” del magazzino. Lavoro come meglio posso, ma a volte sono costretto, non conoscendo alla perfezione i reparti, a chiedere dove sta questa o quella marca, forse non sono il migliore magazziniere del mondo, lo so, e cerco di sopperire correndo e arrancando ai miei limiti: la mia pausa caffè dura sempre meno di quella degli altri, provo a rinunciarci, ma mi fanno commenti non troppo lusinghieri: meglio non fare troppo l’asociale.

Mentre i giorni passano, vedo con i miei occhi quanto prodotto dalle selezioni: uomini e donne di colore puliscono i cessi, signore di mezza età riforniscono di frutta e verdure, presunte belle figliole si alternano al desk informazioni; le cassiere giovani e decenti arrivano alle 8 e staccano prima di noi. Molti dei miei concittadini mollano, nonostante tutto: è troppo lontano da casa loro. Li capisco, ma insisto: io rimango.

Prendo e sollevo i pesi così come mi è stato raccomandato più e più volte di fare. Il mio buffo movimento pare non piacere al Caporeparto Cattivo, che lo considera una perdita di tempo. Vedo colleghi e colleghe spaccarsi la schiena piegandosi in modo tradizionale. Mi raccontano di ernie e dolori vari. Annuisco.

Poi, il primo episodio di quelli che avranno conseguenze. Il punto vendita dove lavoro è sulla strada di una famosissima località turistica. Ci si fermano frotte di stranieri. Nessuno, tranne me, pare sappia una sola parola in inglese o altro. Così, un bel dì, sento due spagnoli chiedere informazioni sul limoncello. Poiché tutti annaspano, mi faccio avanti (ricordate le parole del corso? “qualunque cosa stiate facendo, se un cliente si avvicina, lasciate tutto e dedicatevi a lui. Se vi chiede dove si trova un prodotto, non limitatevi a indicarglielo, ma accompagnateli fino alla corsia giusta“) e traduco, consiglio, spiego.

Mi giro e vedo facce ammirate e perplesse. Sembra un destino, ma c’è un anziano tedesco a due passi da noi che chiede, sillabando: “wasser, wasser”. Due commesse ed un caporeparto lo spingono quasi fisicamente verso i ripiani dove si trovano i waffer, i biscotti. Siccome quello si ribella ed io non so mai stare zitto, ci metto il becco: “no, scusate, in tedesco wasser vuol dire acqua…” Poi mi rivolgo al cliente, gli dico: “bitte” e lo guido dove effettivamente voleva andare. Quando torno a riaprire scatoloni di merendine, vengo accolto come un eroe. Mi sento fortemente in imbarazzo, ma da quel momento ogni straniero (e sono tanti) che ha bisogno di una mano, lo spediscono da me. In realtà sono gentile e collaborativo anche con gli italiani, mi faccio in quattro per aiutare chi ha bisogno, porgo pacchetti alle vecchiette, accompagno nei luoghi giusti, indico prezzi e scadenze, insomma, faccio quanto di meglio possa fare.

Il direttore non la prende bene. Mi convoca e mi dice che sono troppo gentile, che devo pensare al lavoro mio e non a quello degli altri, che non va bene il fatto che io molli scatole e pacchi e accompagni le persone. Mi scuso molto, ma oppongo le mie argomentazioni: alle selezioni ci hanno detto che… mi interrompe “eh, le selezioni! Lasciamo perdere le selezioni!”.

Me ne vado un po’ umiliato, ma va bene così. Certo, le umiliazioni che ricevono i miei compagni sono anche peggiori: caporeparto, direzione, impiegati inveiscono spesso contro di loro, o li prendono in giro (sia durante il lavoro che nelle rare pause) giocando sulla loro (purtroppo reale) ignoranza. Un po’ come in quei programmi TV dove il furbacchione di turno va a mettere in imbarazzo persone in evidente difficoltà con paroloni e nozioni finto-culturali, e poi ride. Il fatto che io legga il giornale nella pausa caffè viene visto come una cosa strana e pericolosa: “oh, non sarai mica un politico, te, eh? Qua non vogliamo casini!”

La stanchezza comincia ad accumularsi. Non ho il fisico, mi dico tra me e me. No, non ce l’ho. Ho sempre sonno. Il giorno peggiore è quello dello “spezzato”: 4 ore di lavoro, 3 ore di riposo, 3 ore di lavoro. È proprio quel lungo riposo che è spossante. Mi trovo a 70 km da casa, dove vado? Caporeparto Buono, Mario, e Giovanna mi consigliano di dormire, come faranno loro. Sì, ma dove? Giro il paesone nel quale mi trovo, e mi siedo 10 minuti qua, dieci minuti là, aspettando che il tempo passi.

Anche se non son più tanto servizievole come prima, continuo a dare informazioni agli stranieri. Nonostante le frecciatine e le critiche, continuo caparbiamente a sollevare i pesi nel modo meno dannoso per la mia schiena.

Un giorno, tutti i neo assunti vengono convocati alla Sede Centrale della Grande Catena di Distribuzione per fare il punto della situazione.

Moltissimi si sono licenziati, molti sono stati mandati via dalle direzioni perché “non adatti al ruolo”. Penso a me stesso, alle domande e risposte in tutti i test che ho fatto, alla irrisolta questione del muletto… però sto zitto in un angolino.

Torno al lavoro. Tanto sonno. Vengo riconvocato dal direttore. Ci sono anche Caporeparto Buono e Caporeparto Cattivo. Mi sventola il curriculum (quello che ho compilato tante tante settimane prima) sotto il naso, e me ne dice, con rabbia frenata a stento, di tutti i colori: “Ma tu parli le lingue! Non una sola, più di una! Ma che significa, questo?” Sinceramente non so rispondere, ascolto. “E poi, questa esperienza che leggo, e questa, e questa…ma come, prima hai fatto questi lavori, e adesso fai il magazziniere??” “bhe, sì, cioè, capita…”. Poi il colpo che non mi sarei mai aspettato: gira lo schermo del computer, e appaiono i risultati della ricerca su Google del mio nome. “No, tu non puoi fare il magazziniere, sei troppo qualificato”.

Da quel colloquio, che si conclude in una serie di discorsi che si potrebbero riassumere nel concetto “vola basso, ragazzo!”, le cose non sono più le stesse. Caporeparto Buono praticamente non lo vedo più, e Caporeparto Cattivo mi si appiccica addosso, ringhiandomi rimproveri qualunque cosa faccia o non faccia.

Nella settimana successiva vengo convocato tre volte dal direttore, che mi chiede, stavolta molto comprensivo e paterno (bah, è più giovane di me di un bel po’…) se davvero era quello il lavoro che volevo fare, se davvero era quello il lavoro per il quale mi sono candidato, se davvero era quello il lavoro al quale aspiravo… mi elenca tutte le difficoltà alle quali andrò incontro (gli orari terribili, la fatica fisica, il probabile ricambio generazionale… anche se sarei un neo assunto!): insomma cerca di convincermi in tutti i modi che io non sono adatto a quell’impiego. Mi viene contestata anche l’età, come se fosse stata un mistero fino ad allora.

Quando, il lunedì dopo, mi richiama ancora nel suo ufficio e ricomincia a farmi le paternali, sbotto, stavolta senza alcuna prudenza: “SÌ, lo so benissimo che non è questo il lavoro che volevo davvero, non ho mai detto che era questo il lavoro al quale davvero aspiravo, ed infatti durante gli infiniti colloqui e test non ho mai una sola volta negato che avrei preferito fare altro! Era chiaro in tutti i passaggi della selezione!” Mi rendo conto di aver alzato un po’ il tono della voce, e, remissivo, abbasso lo sguardo, ma il direttore non si arrabbia, anzi! Sorride. Riprende il mio curriculum in mano e mi richiede: “ma te davvero sai le lingue? Perché non lo hai detto?” A quel punto mi arrabbio sul serio. “Ma lei non lo aveva letto, ‘sto curriculum? Non lo ha letto quando mi hanno assunto? Ma non lo ha letto nessuno, qua? E quelli che hanno fatto la selezione, non lo avevano notato, che avevo ‘sta disgrazia di sapere le lingue? Mi dica direttore, ho fatto qualcosa di male, qualcosa di sbagliato? È vero, è verissimo, stare a scaricare dalle cinque di mattina non è quanto mi aspettassi come traguardo nella vita, ma ho forse svolto male i miei compiti? Ho mai forse lasciato un lavoro a metà, ho gravato sui colleghi per mie inadempienze? Se è così mi licenzi subito, ma mi dica se ho fatto qualcosa di sbagliato o no!”

Mi guarda serissimo. Non dice nulla. Prende il mio fascicolo. Poi mi fa una richiesta: “licenziati tu, per favore”.

Nel reparto si devono essere sparse due voci: la prima, sulla mia insostenibile posizione e sulla precarietà della stessa; la seconda sui risultati della ricerca con Google, perché tutti mi fanno domande, o commenti, qualcuno battutine, sui miei interessi così insoliti (politica et similia…). La mia privacy è andata a ramengo, ma non mi interessa: a me questo cavolo di lavoro, e questo accidente di stipendio servono. Passo il tempo a cercare di apparire quello che non sono, dato che, quel che sono, in tutta evidenza non va bene.

Provo a comportarmi in modo adeguato all’incarico, ma ormai il mio destino è segnato.

Sarò riconvocato altre volte, e la richiesta è sempre una: “licenziati”. Ma io non voglio farlo. Non per presa di posizione, ma anche per le conseguenze sul mio libretto di lavoro, e sulle possibilità di poter avere eventuali sussidi, negati a chi si licenzia.

Il tira e molla va avanti fino al 42° giorno, quando scade il periodo di prova di sei settimane. A quel punto, mi viene concessa una via di uscita: è la Grande Catena di Distribuzione a licenziarmi! Bene, accetto, saluto tutti, porto a lavare la mia uniforme (che restituirò nei giorni successivi) e chiudo questo breve capitolo della mia vita.

Qualche mese dopo, seppi, una enorme parte degli assunti era nuovamente senza lavoro. Un fallimento del processo di selezione senza precedenti. La Grande Catena di Distribuzione si trovò quindi senza personale, e grattarono il barile, telefonando ed offrendo un impiego a coloro che erano stati inizialmente scartati. Una mia cara amica, laureatasi in psicologia con 110 e lode, e che aveva partecipato ai colloqui per avere un posto di dirigente, fu contattata per un posto di magazziniera. Rifiutò.

Cosa ho avuto, da quei 42 giorni? Uno stipendio ed una liquidazione, che non sono male. Una visione su uno spaccato umano e sociale che non conoscevo. La sensazione vaga di inadeguatezza. La frustrazione di dover essere sempre diversi da quel che si è realmente per essere accettati in certi ambienti. La consapevolezza che i direttori ed i caporeparto preferiscono marcatamente avere sottoposti timorosi e possibilmente senza alcun segno di vita intellettuale percepibile: muli, insomma, piuttosto che donne o uomini. E la certezza assoluta che tutto quell’ambaradan di test, di psicologia, di corsi, di colloqui, di compilazioni di moduli, di quiz e di giochi di ruolo non era altro che un maledetto teatrino di cravatte e tailleur, di illusioni e di prestidigitazione, di appalti e contratti e incarichi e ruoli giocati sulla pelle di migliaia di persone.