Il referendum sulla Determinazione della Tariffa del Servizio Idrico. Una panoramica sulle leggi, e gli effetti della eventuale abrogazione

di Gabriele Pazzaglia e Marco Ottanelli

Volete voi che sia abrogato il comma 1, dell’art. 154 (Tariffa del servizio idrico integrato) del Decreto Legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 “Norme in materia ambientale”, limitatamente alla seguente parte: “dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito”?

Il quesito in questione chiede la abrogazione di poche parole di uno dei tanti articoli che compongono il Decreto Legislativo in materia ambientale del 2006, riguardante il modo in cui si “costruisce” la tariffa del servizio idrico, insomma, il come viene stabilito quanto si paga in bolletta.

Una piccola premessa storico-politica: il Decreto di cui si parla è stato approvato dalla maggioranza di centrodestra, ma perfezionato nella sua parte regolamentare ai tempi del Governo Prodi II, quindi da una maggioranza parlamentare di sinistra. L’elemento non è di poco conto, perché dimostra quanto nel tempo e negli opposti schieramenti affondi la “privatizzazione dell’acqua”, che quindi non è cosa né recentissima, né di univoca volontà.
Comunque, si chiede di abrogare un qualcosa; questo qualcosa remunera il capitale investito. Che vuol dire? Attualmente il “metodo normalizzato” (cioè il metodo indicato nelle norme vigenti) per il calcolo della tariffa idrica prevede che l’interesse sui capitali investiti nella gestione idrica (da applicare alla tariffa) sia calcolato in modo forfettario al 7%  annuo del valore del capitale investito: questa scelta, come detto anche dagli economisti Boitani e Massarutto del sito lavoce.it, è “arbitraria e discutibile”. Ora, è pur vero che quel 7 per cento non è “profitto puro”, ma ingloba in sé, ad esempio, gli interessi passivi sui finanziamenti, ma è anche vero che il valore del 7 %, fissato appunto arbitrariamente nel 1996 (ancora governo di centrosinistra!) rappresenta oggi un valore ormai privo di qualsiasi riferimento con il “vero” costo del capitale (nel 1996, ricordiamolo, c’era ancora la lira, ed i tassi relativi!). E però, attenzione: esso viene riconosciuto a tutte le gestioni, anche a quelle pubbliche, non solo a quelle private.

Una ulteriore nota storico-politica: questa parte della tariffa, con l’obiettivo dichiarato di rendere economicamente conveniente l’investimento, è stata introdotta e calcolata da un Decreto Ministeriale del 1° agosto 1996, atto che prende il nome dal ministro dei lavori pubblici dell’epoca, e che per questo viene chiamato Decreto Di Pietro. Ebbene sì, non si tratta di un atto della destra capitalista e berlusconiana, ma, guarda caso, di un decreto di quello stesso on. Antonio Di Pietro che, seppur con quesiti differenti, aveva presentato referenda per “l’acqua bene comune” e che ora partecipa a questo referendum apparentemente dalla parte del Sì. Evidentemente, alla sinistra, e al Di Pietro, del 1996, pareva di andare incontro ad una modernizzazione, che oggi contestano.

Per comprendere come e quanto la eventuale vittoria del Sì possa cambiare la situazione attuale, è bene cercare di capire come si compone, dunque, e di quali e quante voci, la tariffa del servizio idrico integrato. Per farlo, andiamo a leggere l’intero comma 1 dell’ art. 154. Esso recita:

«La tariffa costituisce il corrispettivo del servizio idrico integrato ed è determinata tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari, dell’entità dei costi di gestione delle opere, [dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito] e dei costi di gestione delle aree di salvaguardia, nonché di una quota parte dei costi di funzionamento dell’Autorità d’ambito, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio secondo il principio del recupero dei costi e secondo il principio “chi inquina paga”. Tutte le quote della tariffa del servizio idrico integrato hanno natura di corrispettivo.»

Come si legge chiaramente, il referendum abrogherebbe solo l’inciso tra parentesi quadre, lasciando in vigore tutte le altre componenti della tariffa idrica. Per quanto la mancata remunerazione del capitale investito possa essere, in via del tutto teorica, un fattore disincentivante per i privati, ci pare piuttosto palese che i consigli di amministrazione delle privatizzate, o partecipate, o delle gestioni completamente pubbliche, possano agevolmente trasferire quella quota di tariffa ad altre flessibili voci, in particolare quelle concernenti “i costi di gestione” delle opere e delle aree di salvaguardia, ma, perché no, anche quelle su qualità del servizio o dei costi delle Autorità.

Pur venendo meno quel 7% di remunerazione, 7 % così brutale nella sua ingiustificata fissità, rimane salvo il fatto che, qualunque sia il risultato del referendum, deve essere assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio. E ci mancherebbe solo che la gestione, pubblica o privata che sia, debba, per legge e volontà popolare, andare obbligatoriamente in deficit. In poche parole, le intenzioni, le buone intenzioni dei referendari rischiano di non bastare affatto, anzi, di scatenare rincari che potrebbero anche superare nel loro sommarsi, privi come sarebbero di limiti, quel 7% .

Il comitato promotore, nella sua relazione introduttiva al quesito, afferma che “abrogando questa parte dell’articolo sulla norma tariffaria, si eliminerebbe il “cavallo di Troia” che, introdotto dalla Legge n. 36/94 (Legge Galli), ha aperto la strada ai privati nella gestione dei servizi idrici, avviando l’espropriazione alle popolazioni di un bene comune e di un diritto umano universale. “

A parte la retorica, si conferma quindi che l’acqua (o meglio, la sua gestione) è già “privatizzata” da parecchio tempo, e non è una novità recente, né tantomeno un rischio incombente, ma una realtà ben attiva in quasi tutto il Paese, almeno dal 1994, e si sostiene che esso spazzerebbe via quell’esca golosa della remunerazione, presente fin dalla legge Galli (che usava un linguaggio identico alla legge del 2006);
Ora, essendo stata la legge Galli esplicitamente abrogata dal decreto legislativo del 2006, che l’ha completamente sostituita, non si capisce perché la Galli stessa venga citata, se non in forma evocativa; si torna ancora una volta alle buone intenzioni, un po’ troppo poco per assicurare gli effetti voluti.
D’altronde, è proprio il comitato promotore, proprio nella sua relazione introduttiva, a affermare, in primo luogo, che “si  tratta in questo caso di abrogare poche parole, di grande rilevanza simbolica”. Ma i simboli non fermano gli affari, mai.

Dunque, in definitiva, riteniamo che la eventuale vittoria del Sì non comporterà alcun cambiamento (purtroppo) sulla gestione , sulla remunerazione, sul profitto e sulla tariffazione, e quindi, sulle tasche dei consumatori, rispetto ad una situazione che, immutata da almeno il 1994, ha attraversato indenne tutta la cosiddetta Seconda Repubblica, chiunque governasse.