di Marco Ottanelli e Gabriele Pazzaglia
La questione del possibile intervento armato in Siria proposto da Obama e Hollande (e altri) contro il regime di Assad, per punirlo dell’uso dei gas tossici, riapre per l’ennesima volta la grande questione della legittimità degli interventi militari internazionali nelle vicende di un paese sovrano. Precisiamo: non ci chiediamo se un eventuale intervento sarebbe buono o cattivo, ma legittimo o meno, cioè permesso dalle regole internazionali.
Per capirlo dobbiamo innanzi tutto precisare quali sono tali regole. Dato che gli stati sono tutti, almeno formalmente, sullo stesso livello, gli unici strumenti di creazione di regole sono la consuetudine (il diritto consuetudinario, non scritto, che si forma con la ripetizione e l’accettazione di un dato comportamento) e l’accordo tra stati (i trattati e le convenzioni, atti scritti che legano solo gli stati contraenti).
Ed essendo sullo stesso livello, è anche normale che le relazioni tra gli stati risentano molto dei loro rapporti di forza: finisce per prevalere la legge del più forte.
Per questo, nel ’45, vennero create le Nazioni Unite: per dare valore giuridico alle decisioni prese con il concorso di tutti, ed imporre (sì: anche con la forza) la volontà generale ai singoli stati. Per impedire che fosse la sola voce delle armi a risuonare, nelle relazioni internazionali, e per far sì che invece si creassero regole, norme, leggi condivise, si ideò quel sistema forse poco democratico (nel Consiglio di Sicurezza, Cina, Francia, Gran Bretagna, Russia, USA oltre a sedervi permanentemente, hanno anche diritto di veto) ma riconosciuto universalmente. E oggi questa universalità è realizzata, dato che all’Onu hanno aderito tutti gli stati della Terra.
L’Onu quindi è la sede della legalità internazionale, e fuori da essa e dalle sue decisioni, nulla dovrebbe, teoricamente, essere permesso.
Il Consiglio dovrebbe prendere decisioni nel rispetto della Carta, che dell’Onu è la “costituzione”, ma ovviamente queste decisioni dipendono in ultima istanza dalla volontà delle grandi potenze che siedono nel consiglio stesso. Dunque, la decisione (anche se non è per forza giusta e condivisibile) è legale; e come tale deve essere rispettata.
Il divieto di ingerenza negli affari interni e le sue eccezioni
Leggendo la Carta dell’ONU, all’art. 2 (commi 1; 4; 7) pare di trovare un principio certo al quale attenersi: «L’Organizzazione è fondata sul principio della sovrana eguaglianza di tutti i suoi Membri; I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato; Nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite ad intervenire in questioni che appartengono essenzialmente alla competenza interna di uno Stato».
È il principio di divieto di ingerenza negli affari interni, una delle colonne portanti del diritto internazionale moderno.
D’altra parte, a questo principio – apparentemente assoluto – sono state opposte deroghe e limitazioni. Le più importanti, rispetto al caso che stiamo esaminando, sono la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del 1948, e lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale dell’Aja del 1998.
Oggi, per quanto riguarda la Siria,la situazione è questa: indubbiamente quel che accade è un affare interno al paese: è una guerra civile, nata da una feroce repressione governativa dopo che la popolazione, o una parte di essa, era scesa in piazza durante la stagione delle cosiddette primavere arabe. E l’eventuale presenza di mercenari o volontari stranieri nulla cambia alla specificità interna della questione, anzi, finisce per offrire una legittimità all’azione del governo siriano dato che gli interventi di stranieri sono del tutto vietati dalle leggi internazionali: infatti essendo essi miliziani e non appartenenti a Forze Armate regolari, sono considerati alla stregua di banditi che non godono, pertanto, neppure delle garanzie dovute dalle convenzioni di guerra dell’Aja. Non è dettaglio da poco, se si pensa, ad esempio, che non è loro garantita la prigionia in campi controllati dalla Croce (o Mezzaluna) Rossa e che, anzi, una volta presi prigionieri, possono essere fucilati sul posto, processati come criminali e condannati anche alla pena capitale, essere persino sottoposti a tortura o a condizioni di detenzione fuori da ogni ordinaria legislazione. D’altronde, è quel che è capitato agli internati a Guantanamo.
Detto questo, però, le modalità di questa guerra civile, l’uso massiccio (e fin dai primissimi giorni degli scontri) di armi spropositate da parte del governo, come, in progressione, carri armati, razzi, missili, aviazione militare, bombardamenti a tappeto, contro l’inerme popolazione civile, configurano il comportamento di Assad come facilmente riconducibile ad uno dei casi espressamente previsti e condannati dallo Statuto della Corte Penale Internazionale. Per essere chiari, il regime si è macchiato di una serie di quei crimini che l’art. 7 dello Statuto riconduce alla fattispecie dei “crimini contro l’Umanità”, ed in particolare l’«esteso e sistematico attacco diretto contro popolazioni civili»; lo «sterminio» cioè il sottoporre intenzionalmente le persone a condizioni di vita dirette a cagionare la distruzione di parte della popolazione, quali impedire l’accesso al vitto ed alle medicine; la «deportazione o trasferimento forzato della popolazione»; la «tortura», cioè l’infliggere intenzionalmente gravi dolori o sofferenze, fisiche o mentali; la «persecuzione» ovvero l’intenzionale e grave privazione dei diritti fondamentali, nonché l’arresto, la detenzione o il rapimento delle persone da parte o con l’autorizzazione, il supporto o l’acquiescenza di uno Stato, che è il reato di «sparizione forzata delle persone».
I vertici dello stato siriano sarebbero dunque, per questi fatti, perseguibili. Ma, per adesso, non sono stati deferiti alla Corte penale intenzionale, e anche se così avvenisse, data la prevedibile non collaborazione dello stato siriano, l’unica strada per bloccarli e processarli sarebbe un intervento militare. Che a sua volta, però, dovrebbeessere ordinato dall’Onu.
L’altra eccezione al divieto di ingerenza negli affari interni è la Convenzione contro il genocidio. Nei casi da essa previsti, infatti, l’intervento sarebbe non solo legale e consentito ma, anzi, teoricamente obbligatorio. L’art. 1 della Convenzione recita infatti: «Le Parti contraenti confermano che il genocidio, sia che venga commesso in tempo di pace sia che venga commesso in tempo di guerra, è un crimine di diritto internazionale che esse si impegnano a prevenire ed a punire». L’art. 3 non lascia dubbi rispetto a questo impegno, dato che afferma che il genocidio e gli atti volto a favorirlo «saranno puniti». È più che una indicazione, è una certezza assoluta.
Però, oltre al fatto che nessuno (per adesso) ha mai pronunciato il termine “genocidio” nella guerra civile siriana, all’art. 7 della stessa Convenzione, si legge che «Ogni Parte contraente può invitare gli organi competenti delle Nazioni Unite a prendere, ai sensi della Carta delle Nazioni Unite ogni misura che essi giudichino appropriata ai fini della prevenzione e della repressione degli atti di genocidio», volendo con questo intendere che, laddove un paese membro lo ritenga necessario, esso potrà intervenire anche militarmente, previo pronunciarsi dell’ONU.
L’uso delle armi chimiche
Come detto, la volontà di punire Assad è scaturita dall’uso dei gas. Massacri, devastazioni, fucilazioni, torture, bombardamenti… niente nei passati due anni ha smosso le cancellerie del mondo, ma l’uso dei gas, sì. Come si può facilmente intuire dunque non è la quantità dei morti, né la sofferenza fisica delle vittime, né l’uso indiscriminato di armi che ha fatto ipotizzare l’intervento, ma solo l’uso di un’arma proibita. Può tale uso legittimare una rappresaglia armata anche senza l’autorizzazione dell’ONU?
Esiste una precisa Convenzione sulle armi chimiche firmata a Parigi nel 1993 (ultima in ordine di tempo rispetto alle simili del 1925 e del 1972, entrambe da considerarsi assorbite), e alla quale gli Usa ed i loro alleati si sono espressamente appellati. La Convenzione, in sostanza, vieta la fabbricazione e l’uso delle armi chimiche (compresi i gas) e impone agli stati aderenti la distruzione degli arsenali e degli impianti di produzione. Attraverso i suoi organi costitutivi (la Conferenza, il Consiglio Esecutivo, il Direttore Generale), la Convenzione può imporre sanzioni agli stati disubbidienti, ed eventualmente, in casi di particolare gravità o di gravi violazioni, chiedere l’intervento delle Nazioni Unite, che hanno tra i loro poteri anche l’uso della forza.
Ma non tutte le nazioni del mondo hanno aderito a questo trattato. Oltre al Myanmar ed Israele, che l’hanno firmato ma non ratificato (quindi non ne riconoscono gli obblighi), vi sono l’Angola, l’Egitto, la Corea del Nord, il Sud Sudan ed appunto la Siria, che nemmeno l’hanno sottoscritto. Dunque, ammesso che i gas siano stati veramente utilizzati da Assad e non dai ribelli, fattore non secondario della questione, a nessuno stato, comunque, si può rimproverare di aver violato un trattato che non ha firmato. Di più: la Siria, il 13 settembre 2013 ha annunciato di voler aderire alla Convenzione, e quindi consegnare e distruggere i propri arsenali chimici, ponendosi improvvisamente dalla parte della legalità((È lo stesso statuto della Corte Penale che, al comma XVIII dell’art. 8, definisce come crimine perseguibile l’utilizzare gas asfissianti, tossici o altri gas simili e tutti i liquidi, materiali e strumenti analoghi; ma (parimenti ai bombardamenti sui civili o all’uso delle pallottole “dun dun”), riconduce la fattispecie al capitolo dei crimini di guerra. Ebbene, in Siria non sussiste uno stato di guerra, né, come già ricordato, i ribelli sono stati riconosciuti come belligeranti da alcuno stato o organismo internazionale. Ciononostante, il 16 settembre, il Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki-moon ha definito l’attacco con il gas sarin nel sobborgo di Ghouta, ad est di Damasco, “un crimine di guerra”.)).
Però, dobbiamo considerare un altro elemento di analisi: l’evoluzione del diritto consuetudinario. Infatti da molti anni assistiamo a missioni militari che, sotto il nome di “interventi umanitari”, hanno visto operazioni, senza l’avallo dell’ONU, di vera e propria guerra nei confronti di paesi scossi da conflitti interni o semplicemente dichiarati ostili da altri stati.
Secondo alcuni giuristi e diplomatici, infatti, dato che sempre di più la comunità internazionale sente, afferma ed esercita un diritto-dovere di intervenire laddove vi siano le gross violations (quali stermini sistematici, campi di concentramento, stragi e violenze di troppo grandi dimensioni) a prescindere dall’intervento dell’ONU, si sarebbe formata una norma consuetudinaria in base alla quale gli interventi armati sarebbero ammessi al di fuori del sistema di mantenimento della pace previsto dal diritto delle Nazioni Unite.
I casi studiati per affermare la creazione di questo diritto di intervento sono molti, e la dottrina tende a dividerli in due fasi: prima e dopo la caduta del muro di Berlino.
La differenza sostanziale tra le due fasi è che nella prima, furono tutti pudicamente proposti e giustificati dagli stati autori più come azioni in difesa della loro stessa sovranità e sicurezza, che non come intervento umanitario, come se esso da solo non fosse abbastanza. E probabilmente, all’epoca, non lo era appieno, tanto più che la maggioranza degli stati, USA in testa, condannarono tali azioni. Ma non le fermarono.
Nella seconda, invece, le motivazioni egoistiche (difesa degli interessi nazionali o della pace) vengono poste in secondo piano, e si giustifica l’azione ponendo l’accento sul dovere di aiutare popolazioni oppresse dai loro stessi governanti.
Nel primo periodo, i casi principali di intervento umanitario cui la dottrina fa solitamente riferimento sono: l’invasione del Pakistan orientale (oggi Bangladesh) da parte dell’India nel 1971 e quella della Cambogia del regime dei Khmer Rossi di Pol Pot da parte del Vietnam nel 1978; l’intervento della Tanzania contro il regime di Idi Amin Dada in Uganda nel 1979; e, infine, sempre nel 1979, il colpo di Stato, sostenuto dalla Francia, contro l’impero centroafricano di Jean Bedel Bokassa.
Dopo il 1989 gli interventi umanitari unilaterali (ricordiamo: giustificati con il fattore umanitario) principali sono l’interdizione aerea stabilita da Francia, Regno Unito e Stati Uniti nel Nord dell’Iraq nel 1991, dopo la conclusione dell’operazione Desert Storm, per la protezione della popolazione kurda; gli interventi della Comunità Economica degli Stati Africani Occidentali (ECOWAS) in Liberia, a partire dal 1990, e in Sierra Leone dal 1999; nonché l’intervento della NATO contro la Iugoslavia serbo-montenegrina nel 1999; e, parzialmente, la guerra in Libia del 2011.
Nessuna di queste operazioni, talvolta vere e proprie guerre non dichiarate, sono state decise dall’Onu.
Analizzando i due casi più recenti, notiamo che la guerra alla Iugoslavia, intrapresa indipendentemente dalla Nato, senza alcuna autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza, ed anzi, con la riprovazione dell’Assemblea Generale, viene spesso giustificata in quanto, secondo alcune letture (cit. A. Bianchi) la risoluzione Onu n. 1244, successiva ai bombardamenti, avrebbe avuto l’effetto di una sanatoria, e avrebbe quindi riconosciuto il fissarsi della consuetudine; altri (G. Palmisano) rigettano questa interpretazione e rifiutano ogni possibile creazione di diritto ex post. La guerra di Libia muoveva da una risoluzione, la n. 1973, che istituiva sì la no fly zone su tutto il territorio libico (ricalcando quindi il provvedimento relativo all’Iraq) e autorizzava ad ogni azione atta a proteggere la popolazione civile, ma non parlava né di colpire le infrastrutture governative né di portare alla sconfitta e alla eliminazione di Gheddafi.
La questione è rimasta quindi aperta fino ad oggi: nulla è stato definitivamente fissato, nel diritto, ma siamo di fronte ad una (inarrestabile?) tendenza.
Ecco, data questa tendenza, un altro intervento militare unilaterale, se fosse supinamente accettato dai paesi che ad esso non parteciperanno, darebbe ulteriore forza alla tesi della legittimità di tali azioni. E ciò sarebbe, a nostro avviso, pericoloso perché rischierebbe di mettere in secondo piano il sistema di mantenimento della pace delle Nazioni Unite, sistema che, con tutti i suoi limiti, è l’unica alternativa alla anarchia e alla legge del più forte. Si tratterebbe quindi di un balzo all’indietro di svariati decenni, ed il cinico opportunismo, la convenienza politica, gli interessi particolari dei più forti porrebbero l’intervento umanitario ed i suoi principi in balia della più ampia ed incontrollata arbitrarietà, permettendo a chi detiene il controllo della forza militare di scegliere di volta in volta, con cinico opportunismo, chi salvare e chi sommergere((esistono casi di violazioni palesi dei diritti umani e persino di genocidio nei quali nessuno è intervenuto, o, se lo ha fatto, lo ha fatto in modo molto soft. Si pensi alla Cecenia che fu abbandonata alle due ondate di repressione russa sotto Boris Eltisin (1994-1996) e sotto Vladimir Putin (1999-2006), con un totale stimato di 150-200 mila morti; oppure la guerra civile in Congo, allargatasi poi a tutta la regione, con l’intervento di ben nove paesi africani, che dal 1998 ha causato quasi quattro milioni di morti; la debolissima e tardiva risposta, per quanto questa volta stabilita dall’Onu, a Timor Est al momento della sua indipendenza (1999); e soprattutto, i massacri di Ruanda e Burundi, nel conflitto etnico tra Hutu e Tutsi (1994-1995), durante il quale le cancellerie del mondo si guardarono bene dal definire le immani stragi in corso quali “genocidio” per non essere obbligate ad intervenire in alcun modo.)).
Nel caso Siria, dunque, è assolutamente necessario che le Nazioni Unite ritrovino la loro capacità di essere il centro della legalità internazionale e delle azioni atte a tutelarla, e che i governi del mondo accettino i risultati delle ispezioni Onu e le decisioni conseguenti del Consiglio di Sicurezza. Decisioni che, ripetiamo, possono essere giuste o sbagliate, ma che almeno non danno luogo ad arbitri.