Di Gabriele Pazzaglia
Domenica 22 aprile la Francia è chiamata alle urne per votare al primo turno delle elezioni presidenziali. La scelta, per il contesto europeo nel quale viviamo, avrà conseguenze anche fuori dalla Francia: confermare o cambiare le politiche francesi nel confronti dell’Unione europea, per esempio, segnerà una evento che influenzerà molte altre nazioni. Prima di parlare delle idee in campo, per capire per cosa si vota, è necessario inquadrare il sistema istituzionale francese.
L’elezione di un re
Nel 1946, la Francia, uscita vittoriosa dalla seconda guerra mondiale decise di darsi, dopo un travagliato percorso, una nuova Costituzione allora molto simile a quella italiana: l’unico organo eletto direttamente era il Parlamento il quale eleggeva il Presidente delle Repubblica e accordava la fiducia al Governo. Ma in quegli anni difficili il paese rimase stretto tra un’estrema instabilità politica e la degenerazione dell’impero coloniale: la guerra in indocina, la Tunisia, il Marocco e, infine, la guerra d’Algeria: è il 1958 quando, nel timore di un colpo di Stato militare, il Presidente della Repubblica francese chiama a presiedere il Governo “il più illustre dei francesi”, Charles de Gaulle il quale accetta a patto che venga scritta una nuova Costituzione. Questa, preparata dal suo Governo e approvata con referendum, prevede un grande cambiamento: l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. E da questa legittimazione diretta ne deriva un suo grande rafforzamento: avrà, d’ora in avanti, la possibilità, su proposta del Governo, di indire referendum (scavalcando le camere ed appellandosi direttamente al popolo) e di chiedere a questo le dimissioni (a meno che non vi sia un periodo di coabitazione, con una maggioranza parlamentare di colore diverso da quello del Presidente). Al Parlamento, infine, è sottratto il controllo del suo OdG (che può essere influenzato dal Governo) e una parte della sua competenza legislativa: l’art. 34 della Costituzione prevede le materie nelle quali questo può legiferare, tutte le altre sono riservate all’Esecutivo (a differenza del modello italiano nel quale ogni atto del Governo deve essere o precedentemente autorizzato o successivamente vagliato dal Parlamento).
Il ruolo del Presidente è ulteriormente rafforzato nel 2000. La riduzione del mandato presidenziale da 7 a 5 anni porta ad una modifica del calendario elettorale: il fatto che le Camere e il Presidente abbiano la stessa durata permette di eleggerli insieme riducendo al minimo i rischi di coabitazione. E senza coabitazione il potere si accentra nella presidenza. Un tentativo di stabilità che ha portato al fenomeno, molto dibattuto in Francia, dell’hyperpresidentialism. Oggi l’Eliseo è il centro della politica.
I candidati
L’Eliseo è il centro della politica, abbiamo detto. Ma quale politica? Questa semplice domanda ha una risposta complessa perché molteplici, ed incrociati, sono i temi che in questo periodo vengono in rilievo (anche) in Francia. Questa campagna elettorale si caratterizza, più di altre, per uno scollamento tra ciò di cui i francesi vorrebbero parlare (economia, lavoro, potere d’acquisto) e ciò di cui i candidati vorrebbero parlare.
Questo sondaggio di Demos sull’insicurezza sociale ed economica in Italia ed Europa, ci aiuta a capire quali sono i temi più sentiti nella nazione francese e in altre europee.
Emerge nettamente una prevalenza di paure legate ai temi economici. La crisi si fa sentire e dopo anni in cui le principali tensioni erano quelle legate alla criminalità e alla sua sovrapposizione con l’immigrazione, la sicurezza (ri)comincia a non essere più intesa nel senso di incolumità fisica ma, come spiega Ilvo Diamanti nel suo rapporto annuale, a rientrare nei “confini sociali”.
Forse è proprio la diffusa attenzione ai temi economici che ha determinato, nei sondaggi e nelle piazze, l’ascesa del fenomeno Mélenchon: indicato oggi tra il 13 e il 16% nei sondaggi, l’esponente del Fronte della sinistra (un raggruppamento formato dal Partito comunista, da altri partiti minori e da alcuni fuoriusciti del Partito socialista) è il candidato che ha maggiormente progredito sia nei sondaggi sia nella presenza sui media già prima dell’apertura ufficiale della campagna elettorale (caratterizzata, con un sistema molto simile alla par condicio italiana, dall’obbligo per radio e televisioni di mettere a disposizione lo stesso tempo a tutti i candidati) . Con un programma incentrato sulla lotta all’austerità e al dominio dei mercati finanziari, l’esito finale della presidenza di Mélenchon dovrebbe essere la convocazione di un’Assemblea Costituente per fondare la VI Repubblica.
E forse sono sempre gli stessi temi economici che permettono all’eurodeputata ed euroscettica Marine LePen (Fronte Nazionale), di apparire nei sondaggi ad un livello simile a Mélenchon. Sembra profilarsi tra loro, quindi, una lotta per il terzo posto. La candidata, rappresentante del Fronte nazionale, il discusso partito di estrema destra, è la figlia di Jean-marie LePen il candidato che, nel 2002, grazie anche alle divisioni interne alla sinistra, giocò bene le sue carte superando il primo turno e sfidando, perdendo, Jaques Chiraque al ballottaggio. In quelle elezione, a nostro avviso, si anticipò un fenomeno che in Italia si è verificato nell’ultima campagna elettorale: la stigmatizzazione degli immigrati come fonte di criminalità e, al contempo, l’evocazione del pericolo che gli stessi rubassero i posti di lavoro ai francesi, portò a quel probabile travaso di voti da sinistra a destra che, in Italia, abbiamo vissuto nelle elezioni del 2008 con una vera e propria emorragia di Rifondazione in favore della Lega Nord.
Tra questi due estremi vi è il candidato di centro: François Bayrou. Candidato alle elezioni presidenziali per il movimento democratico, di estrazione cattolica, “credente e laico” si definisce, collocato al centro, ha impostato la campagna elettorale sulla base che la situazione economica della Francia sia peggio di quella che viene raccontata, proponendo una diminuzione delle spese pubbliche e l’aumento di due punti percentuali di IVA (che in Francia si chiama TVA). Potrebbe essere l’ago della bilancia con il suo pensiero teoricamente compatibile sia con il Presidente uscente sia con il candidato del Partito socialista. Ha detto che se non arriverà al ballottaggio darà indicazioni di voto dopo il primo turno ma che non sarà il Primo Ministro di un Presidente del quale non condivide le “opzioni fondamentali”.
I due candidati in vetta ai sondaggi sono, però, Nicolas Sarkozy (UMP: Unione per un movimento popolare) e François Hollande (PS: Partito socialista), entrambi indicati tra il 25 e il 30% dei voti al primo turno. La tendenza sembra favorire il candidato socialista: ieri, 19 aprile, è stato infatti pubblicato l’ultimo sondaggio che conferma la crescita di Hollande al 30% e la perdita di qualche punto percentuale da parte del Presidente uscente che scivola a 26,5. Ancor più interessante sono le previsioni per il secondo turno che, nello stesso sondaggio, vedono Hollande al 57% (confermato una tendenza consolidata).
L’atmosfera, come era ovvio in elezioni come queste, è tutt’altro che rilassata. Protagonisti , abbiamo detto, sono i temi economici: la crisi, le imposte, il laoro, il potere d’acquisto, la conservazione o la riforma dello stato sociale. Molte sono le proposte e, se un aumento ella pressione fiscale sembra inevitabile, chiunque vinca le elezioni, differenti sono i modi e gli importi che i candidati hanno in mente. Un punto fermo c’è: gli aumenti che sono già stati votati, cioè, tra gli altri, quello dell’aliquota minima dell’IVA dal 5,5 al 7% (tranne i beni di prima necessità) ed la previsione dal 1 ottobre prossimo di un aumento di 1,6% dell’aliquota massima (che passa dal 19,6 al 21,2). Quest’ultimo aumento, secondo Sarkozy dovrebbe essere coordinato con la diminuzione delle tasse sul lavoro. In pratica si redistribuirebbero su tutti i cittadini quelli imposte scontate ai lavoratori. Per il resto il Presidente uscente ha indicato come primaria la diminuzione della spesa pubblica da affiancare ad una “tassa sugli esiliati fiscali” (in base alla quale se un francese andrà all’estero dovrà indicare all’amministrazione quante imposte ha pagato alla Stato straniero e se questa cifra è minore di quanto avrebbe pagato in Francia, dovrà versare la differenza). Di contro il programma socialista prevede un aumento delle imposte che, da sinistra degna di questo nome, dovrebbe essere indirizzata soprattutto verso i ricchi: esemplificative sono sua l’introduzione di una aliquota del 75% (!) per i redditi superiori al milione di euro sia l’aumento della tassazione tramite ISF (l’imposta di solidarietà sulla fortuna, introdotta da Mitterand), che dopo una modifica dell’anno scorso colpisce i patrimoni sopra 1,3 milioni di euro (mentre prima partiva da 800mila) . Si può leggere sul sito ufficiale di Hollande che quest’ultimo considera l’aumento dell’IVA una misura per “preservare i privilegi dei più ricchi” (una misura molto vicina, se non identica, a quello “spostamento della tassazione dalle persone alle cose” auspicata dal nostro Presidente del Consiglio).
Sarkzsy, come tutti i Governi in carica dallo scoppio della crisi, ne paga le conseguenze: candidatosi nel 2007 al grido di “sarò il presidente del aumento del potere d’acquisto” chiede di nuovo la fiducia dei francesi con l’implicito argomento che, senza di lui, le cose sarebbero andate molto peggio. Ebbene, in questa situazione è facile fare campagna elettorale contro qualcosa piuttosto che che per qualcosa, ma ad un’elezione come quella di presidente, non basta chiedere di respingere un altro candidato ma è necessario chiedere che si venga approvati in prima persona. Ed è questo che alcuni rimarcano a Hollande imputandogli come peccato originale quello di aver vinto le primarie del suo partito solo perché il noto Straus-Kahn è stato coinvolto in scandali politicamente poco spendibili. Certo si deve riconoscere al candidato socialista di aver assunto un atteggiamento apertamente ostile rispetto alla finanza speculativa: la sua proposta di riforma bancaria dovrebbe essere incentrata sull’incentivazione dei canali di credito che servono come finanziamento alla produzione e la lotta alla finanza che finisce per essere mera speculazione.
L’Europa di Hollande
Questo ultimo anno (e non solo) è stato caratterizzato, dal punto di vista europeo, dal famoso direttorio franco-tedesco. Il risultato è noto: rigore, rigore, rigore. L’inserimento nelle costituzioni dei paesi membri della Ue del pareggio di bilancio ne è la conclusione più evidente. Contro questo modello Hollande si pone in parziale alternativa: infatti, benché il Partito socialista abbia impedito l’inserimento in costituzione di tale norma (grazie alla maggioranza che detiene al Senato dopo le elezioni dello scorso settembre), il rifiuto non è pregiudiziale e tale inserimento potrebbe comunque avvenire perché lo stesso candidato socialista ha tra i suoi obiettivi quello di riequilibrio dei conti pubblici per il raggiungimento del pareggio di bilancio entro la fine del quinquennato. Questo obiettivo dovrebbe però, in qualche modo, stare insieme con la crescita: da qui l’impegno di rinegoziazione del accordo inserendovi nuove norme sull’utilizzo delle risorse europee esistenti e strumenti per aumentarle come la tassa sulle transazioni finanziarie e le euro-obligations (quelli che noi chiamiamo eurobond) evocando un ruolo più penetrante da parte della Banca centrale Europea. Interessante è quanto detto da Pierre Moscovici, il direttore della campagna socialista, che, parlando dell’asse franco-tedesco, riconoscendo alla Merkel la libertà di fare campagna elettorale per Sarkozy ha precisato che “dinamismo franco-tedesco non significa identità” rimarcando la differenza culturale e di modello sociale e che la rinegoziazione non rimetterà in causa il pareggio di bilancio ma lo completerà prendendo in considerazione crescita e lavoro. Forse il tentativo di dare un colpo al cerchio e uno alla botte ma probabilmente l’unica via per dare una svolta alla politica europea incardinata sull’asse Merkel-Sarkozy.
Una svolta sui diritti?
Il 10 febbraio 2011, più di un anno fa, Sarkozy dichiarò che “multiculturalisme est un échec”, il multiculturalismo è un fallimento, allineandosi ad analoghe dichiarazioni della cancelliera Merkel e del primo ministro inglese Cameron. Il concetto alla base di questo ragionamento, espresso nella stessa occasione è che “non vogliamo una società di comunità che vivono una accanto all’altra. Se si viene in Francia si accetta di fondersi in una sola comunità, la comunità nazionale”. Più di un anno dopo, a Tolosa, Mohammed Merah uccide tre militari francesi, prima, e tre bambini e un professore, dopo. Il movente appare subito l’antisemitismo visto che i civili sono stati aggrediti davanti alla scuola ebrea nella quale stavano entrando ed avevano tutti la doppia cittadinanza franco-israeliana. Il Governo sceglie la linea dura e decidere di superare la resistenza di Merah con un operazione militare che si concluderà con la sua uccisione.
Il fatto rilancia il problema dell’integrazione degli immigrati e dei loro figli. Sarkozy, in una intervista al Grand Journal, in onda su Canal+, indica l’immagine della tragedia come simbolo della sua campagna elettorale. L’assassino infatti era nato in Francia e aveva la doppia cittadinanza franco-algerina. La linea scelta da questa Governo è stata quella dell’assimilazione: l’esplicito divieto, in Francia, di indossare il burqa è il simbolo di una linea che si disinteressa alla cultura del paese di provenienza dell’immigrato e la prevalenza dei valori nazionali (a differenza dell’Italia nella quale il burqua non è affatto vietato visto che la nota legge Reale, pone il divieto di coprirsi il volto senza giustificato motivo. E quale motivo è più giustificato che l’esercizio di un diritti costituzionale quale la manifestazione della religione). Non emerge, dal programma di Hollande, alcuna presa di posizione rispetto al burqa: la religione nel suo programma è considerata solo indirettamente, nella proposta di inserire nell’art.1 della Costituzione il principio di separazione Stato e Chiesa del 1905. Non sembra quindi che vi sarà una retromarcia sul modello di intergrazione. Probabilmente, però, il Partito socialista ha un idea differente di identità: rispetto allUMP che sembra molto attaccata al concetto di tradizione, ci sembra che il PS abbia un idea maggiormente attaccata ai diritti, alla effettiva attuazione della libertà e dell’eguaglianza Questa ci sembra sia il pensiero che sta sotto a proposte come quella dell’introduzione dell’eutanasia, del voto alle elezioni locali agli immigrati regolari e al matrimonio e all’adozione da parte delle coppie omosessuali.
Come andrà a finire?
I sondaggi sono incerti: l’attuale vantaggio di Hollande non è tale da considerare la vittoria già raggiunta. Gli incerti e l’astensione potrebbero giocare un ruolo decisivo.
Di sicuro c’è che ne uscirà una Francia politicamente differente: in caso di vittoria di Sarkozy, il presidente uscente ha già detto, in un intervista a Paris Match che metterà in cantina il modello dell’hyperprésidentialism, la costanza presenza su tutti i temi politici, per concentrarsi, in caso di vittoria, sui grandi temi politici lasciando al Primo Ministro, non più ridotto a poco più di un porta parola, le altre scelte.
In caso di vittoria di Hollande vi sarà certamente una voce dissenziente in Europa che potrebbe trascinare il Partito socialista tedesco nelle elezioni del prossimo anno. E se ciò avverrà sarà quanto meno difficile per il Partito Democratico italiano affrontare i temi economici che verranno dibattuti nelle elezioni italiane del 2013 perché si troveranno nella contraddittorietà di condividere il gruppo parlamentare del Partito Socialista Europeo con esponenti molto contrari alle politiche di rigore attuale. Politiche che, però, avranno contribuito a realizzare in Italia.