di Gabriele Pazzaglia
Tutti gli animali sono eguali,
ma alcuni animali sono più eguali degli altri
George Orwell, La fattoria degli animali
Tra timide proposte, tra moderate aperture, e molte severissime censure, il Italia si sta aprendo, per l’ennesima volta, il dibattito sull’estensione dei diritti civili alle persone omosessuali per cercare di porre fine al far west legislativo che accompagna queste relazioni affettive. Alcuni politici si sono espressi per una regolamentazione ad hoc, quasi nessuno per la soluzione più semplice, l’estensione a tutti dell’accesso al matrimonio.
A una parte della nostra società può sembrare assurdo, o impossibile, che due persone dello stesso sesso possano sposarsi. Può sembrare fuori dalla “tradizione”, dalla “normalità”. Ma si deve pensare che in passato la tradizione, la normalità, sono serviti per giustificare disparità che oggi ci sembrano inaccettabili.
Vogliamo parlare di una recente sentenza della Corte di Cassazione, che cerca di far fare un passo avanti all’effettiva eguaglianza, raccontando un fatto analogo, avvenuto più di cento anni fa: all’inizio del ‘900 il diritto di voto era negato alle donne, era considerato una assurdità ed un pericolo; solo alcune illuminate menti di persone coraggiose provarono a fare avanzare la democrazia, l’uguaglianza, e furono osteggiate in ogni modo.
Una di queste persone si espresse il 28 luglio 1906: il questa data la Corte d’Appello di Ancona depositò, prima in Italia, l’ordine di iscrizione di 10 donne nelle liste elettorali delle elezioni politiche. Oggi sappiamo che mancavano ancora 40 anni alla reale possibilità per le donne di esercitare uno dei diritti che oggi riteniamo fondamentalissimi, il diritto di voto; ma allora, quella sentenza appariva come una potenziale rivoluzione copernicana (qui la sentenza con commento critico di Vittorio Emanuele Orlando).
Le due vicende – il diritto di voto alle donne nel 1906, e il matrimonio tra persone dello stesso sesso oggi – sono legate da paralleli attivismi giudiziari che, inserendosi nelle pieghe della legge, cercarono e cercano, oggi come ieri, di usare il principio di eguaglianza come strumento per estendere il godimento di alcuni diritti che sono negati a intere categorie di cittadini.
Infatti, la sentenza del 1906, redatta dal Presidente stesso della Corte di Ancona, Lodovico Mortara, uno dei più stimati giuristi dell’epoca (il quale qualche anno dopo, nel 1919, da Ministro della Giustizia, abolirà l’autorizzazione maritale, cioè la necessità per le donne di chiedere il permesso del marito per compiere gli atti più importanti come donare, vendere immobili o ipotecarli), è lineare nella applicazione del principio di eguaglianza: rigettando infatti la richiesta del Pubblico ministero, che affermava che le donne, nell’allora Regno d’Italia, semplicemente non avessero diritti politici, Mortara arrivò ad un principio opposto: e lo fece partendo dalle leggi in vigore, dallo Statuto Albertino che all’art.24 diceva che “Tutti i regnicoli (gli abitanti del regno d’Italia, non ancora riconosciti come cittadini), sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente dei diritti civili e politici, salve le eccezioni determinate dalle Legge”. E l’art. 25 proseguiva affermando che “Essi, contribuiscono indistintamente, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato”. E questi tutti, affermò la Corte, sono proprio tutti: cioè, come non ci sono dubbi che anche le donne debbano pagare le tasse in proporzione ai loro averi, così non possono esserci dubbi che anch’esse siano titolari di diritti politici. Per questo, salve le eccezioni determinate dalle Legge, anche loro hanno il diritto di voto. E visto che quell’eccezione nella legge elettorale per il Parlamento (a differenza di quella comunale e provinciale, che esplicitamente la prevedeva) non c’era, era giusto inserirle nelle liste elettorali.
Parleremo tra poco di come andarono a finire la questione, e di cosa accadde a quel giudice..
Adesso, con un balzo di 100 e passa anni in avanti, possiamo analizzare le analogie con la recente vicenda relativa al matrimonio tra persone dello stesso sesso. La Corte di Cassazione, con una recente sentenza (la 4184 del 2012) ha raccolto gli argomenti poco prima utilizzati da altre due Corti: la Corte costituzionale e la Corte Europea dei diritti dell’Uomo((Queste tre Corti non vanno confuse: la Cassazione è il supremo organo di interpretazione della legge italiana. La Corte costituzionale, invece, annulla, quando contrarie alla Costituzione, le leggi nazionali (così come interpretate dalla Cassazione). La Corte Europea dei diritti dell’Uomo, infine, è una Corte internazionale, con sede a Strasburgo che giudica, senza potere di annullamento, della conformità con la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo di qualsiasi atto statale dei 47 stati membri.)). Così arrivando a fare il punto della tutela o non tutela delle relazioni di coppia formate da persone che (ancora) non possono accedere all’istituto del matrimonio.
La prima delle due sentenze utilizzate dalla Cassazione è la 138/2010 della Corte costituzionale: ad essa un Tribunale aveva chiesto di dichiarare incostituzionali alcuni articoli del nostro codice civile che, seppur implicitamente, impediscono il matrimonio omosessuale e, dunque, avrebbero violato l’art.2 (tutela delle dei diritti dei cittadini nell loro formazioni sociali) l’art. 3 (il principio di eguaglianza), e il 29 (il diritto al matrimonio).
La Corte respinse affermando che l’art. 29, quando dice che “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”, intende dire che il Parlamento è libero sia di ammettere sia di impedire il matrimonio tra persone dello stesso sesso perché, dice la Corte, anche se “i concetti di famiglia e di matrimonio vanno interpretati tenendo conto dell’evoluzione della società e dei costumi”, i costituenti, non avendo mai parlato di unione omosessuale in Assemblea, “tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942”.
Secondo noi la sentenza è criticabile perché manca del coraggio di far prevalere il principio di eguaglianza su artifici giuridici. Infatti, quando la Corte dice che il significato di matrimonio secondo la Costituzione è lo stesso del codice civile compie un’operazione che non è condivisibile perché dire che la Carta fondamentale, che è il parametro di giudizio, deve essere interpretata nella sua lettera tramite le leggi, che invece, di quel giudizio, sono l’oggetto, vuol dire semplicemente depotenziarla, degradandola a mero strumento di ratifica delle leggi preesistenti. Infatti l’argomento che potrebbe essere dirimente, il principio di eguaglianza, viene sostanzialmente eluso: la Corte afferma che tutto va bene “in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”. Elementi di differenziazione, fatti, ragionamenti? Tutto tace, come se ciò fosse una verità autoevidente.
La Costituzione, come è da molti riconosciuto, grazie ad una serie di principi adattabili all’evoluzione della società, riesce a guardare lontano; è vero, ma c’è anche bisogno di guardare nella giusta direzione. Infatti, alla fine, ciò che rimane della sentenza è un’ aggancio che la Corte fa all’art 2 (la tutela delle formazioni sociali) affermando che “spetta al Parlamento individuare le forme di garanzia e di riconoscimento” della stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso “restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni” quando “in relazione ad ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale”. La Corte si riserva quindi il potere di dichiarare incostituzionali singole norme che trattano in modo diseguali coppie omosessuali rispetto a coppie etero sposate. Il discorso appare contraddittorio: sembra dire la Corte che vanno bene due trattamenti diversi perché le situazioni sono diverse, ma se, di tanto in tanto, le situazioni sono uguali, allora si deve trattare in modo uguale. Ma come è possibile che il sesso dei coniugi a volte possa essere argomento di differenziazione e a volte di eguaglianza? Ma non sarebbe stato più semplice, e più giusto, ammettere il matrimonio, invece di dover caricare singoli cittadini dell’onere di imbastire processi (con il rischio di perderli) magari fino a dover arrivare alla Corte costituzionale, per sapere se questa ritiene che quella situazione sia una di quelle ipotesi particolari di discriminazione?
Per capire come la Corte di cassazione abbia “raccolto” questa sentenza è necessario parlare anche di una sentenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo, il caso Schalk e Kopf contro Austria del 2010 (versione ufficiale in francese e traduzione non ufficiale in italiano). Due cittadini austriaci hanno chiesto alla Corte Europea di dichiarare che il divieto di matrimonio omosessuale nel loro paese violasse l’art. 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita familiare) coordinato con l’art. 12 (diritto al matrimonio).
La Corte ha rigettato il ricorso perché l’art. 12 afferma sì il diritto al matrimonio, ma secondo le leggi nazionali. Ma, benché essa non voglia e non possa entrare in tale riserva, fa comunque un passo avanti: mentre quell’articolo fino ad oggi era stato utilizzato per dire che l’unico matrimonio conforme con la Convenzione fosse quello tra uomo e donna (perché l’art. dice che “gli uomini e le donne” possono sposarsi mentre tutti gli altri articoli sono costruiti con la formula “tutti hanno un diritto” o “nessuno può essere soggetto ad un determinato trattamento”) la Corte evolve la sua interpretazione dicendo che la Convenzione deve essere interpretata nel senso che il diritto è riconosciuto a tutti ma, con ragionamento un po’ da azzeccagarbugli, “sgancia” questo riconoscimento, dalla garanzia dello stesso la quale rientra nella insindacabile discrezionalità degli stati.
Arriviamo dunque alla recente sentenza della Corte di Cassazione: questa è chiamata a decidere se due italiani, che si sono sposati nei Paesi Bassi qualche anno prima, hanno diritto alla trascrizione del loro matrimonio del registro dello stato civile. Insomma, se possono essere considerati sposati dallo Stato italiano dato che già lo sono per lo Stato olandese. La Cassazione, nel rifiutare la trascrizione, fa comunque qualche passo avanti: le basi di partenza, abbiamo detto, erano la sentenza della Corte costituzionale, secondo la quale il diritto al matrimonio non è riconosciuto in generale (ma sono solo tutelabili specifiche situazioni che rientrano nella relazione di coppia), e quella della Corte di Strasburgo secondo la quale, invece, il diritto è sì riconosciuto ma non garantito. Per muoversi razionalmente in questo intreccio la Cassazione si aggancia all’art. 2 della nostra Costituzione che afferma che “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo…”: ne ricava dunque che se c’è riconoscimento, c’è anche garanzia: ma di che garanzia si tratta? Dice la Cassazione: “i componenti della coppia omosessuale, conviventi in stabile relazione di fatto, a prescindere dall’intervento del legislatore, possono adire i giudici comuni” affinché, al ricorrere, come detto dalla Corte costituzionale, di specifiche situazioni, possano far valere il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata”.
Risultato? Un ircocervo! La Corte di Cassazione, infatti, viste le norme e le decisioni di altre Corti probabilmente non avrebbe potuto agire diversamente (e questo passo in avanti è certo preferibile ad un semplice nulla di fatto). Solo che, se questa giurisprudenza fosse confermata, da una parte si continuerebbe a vietare il matrimonio (perché secondo la Corte costituzionale le situazioni sono differenti) ma, dall’altra, si aggancerebbero alcuni diritti e doveri non ad un atto formale e sicuro quale è il matrimonio stesso, ma alla sussistenza, caso per caso, di una situazione di fatto che sia assimilabile a quello di una coppia sposata. Il tutto condito con l’arbitrio che ne consegue sia nello stabilire se sussista una stabile relazione di fatto (serve un anno o bastano 15 giorni? E perché se ci si sposa il ragionamento vale dal giorno stesso?) sia nell’individuare quale siano le situazioni specifiche, che fino ad ora nessuno ha specificato, nelle quali il trattamento deve essere equivalente (si entra nella linea di successione ereditaria? la pensione di reversibilità? il diritto di abitazione? il dovere di assistenza?). Se qualche passo avanti è stato fatto, tutto è ancora sospeso e, senza un intervento del Parlamento, serviranno ulteriori interventi giurisprudenziali per dare contenuto a contenitori che, per ora, possono includere tutto e niente.
Insomma ancora sembra che non si riesca a sganciarsi dal condizionamento culturale che vede il matrimonio come qualcosa di mistico e non come un “semplice” strumento per assumere diritti e doveri reciproci tra persone adulte e consenzienti. Uno strumento al servizio della società e non un qualcosa che al contrario finisca per condizionarla. Uno strumento non solo di diritti, ma anche di assunzione di responsabilità.
Forse, dunque, possiamo paragonare fino in fondo questa recente vicenda con quella, del voto alle donne, con la quale abbiamo aperto quest’articolo. Infatti quella coraggiosa sentenza della Corte di Appello di Ancona fu annullata dalla Corte di Cassazione la quale rimandò tutto a tempi a venire. Ma erano tempi diversi nei quali la magistratura non aveva certo l’indipendenza che le è oggi garantita: infatti quel Lodovico Mortara, nel 1923, frattanto diventato Primo Presidente della Corte di Cassazione di Roma((Fino a quell’anno le Corti di Cassazione italiane erano 5: Roma, Palermo, Torino, Napoli e Firenze)), fu prepensionato dal primo Governo Mussolini (quello di coalizione con i Popolari) perché contribuì in modo determinante all’affermazione da parte della Cassazione della possibilità dei giudici di eliminare decreti-legge (cioè atti governativi che pretendevano di avere forza di legge) non presentati immediatamente alle Camere per la loro conversione in legge. Era un uomo pericoloso per quel sistema, evidentemente.
Oggi, invece, vediamo interventi giudiziari che cercano di tamponare l’inerzia del legislatore, ma sarebbe auspicabile più coraggio da parte di tutti: da parte di chi, cittadino o parlamentare, vede ancora il matrimonio come un sacramento e non come un patto laico per assumere davanti alla società, diritti e doveri. Da parte della Corte costituzionale che ha perso un’occasione di premere l’acceleratore della storia. Da parte di quei centri di potere (settori di partiti, o partiti interi, Chiesa, neofascisti) che fanno delle loro piccole paure alti principi morali.
Articoli collegati:
Matrimonio “omosessuale”? Non è questo, il punto.