di Marco Ottanelli
“Era già noto ai servizi segreti”; “conosciuto alle forze dell’ordine”; “attenzionato come probabile terrorista”; “classificato tra i radicalizzati”…
Ormai è una costante: ogni volta che un fanatico terrorista islamico uccide in Europa (ultimi casi Berlino, Londra, Parigi, Manchester, e ci mettiamo anche l’accoltellatore della stazione di Milano), immediatamente si viene a sapere da fonti certe che egli non è un ignoto colto da raptus, ma un freddo, determinato criminale che pianifica da tempo la sua azione di odio e di morte, schedato e controllato da polizia e servizi. Ciò provoca comprensibilmente rabbia e sconcerto nell’opinione pubblica, e alimenta sentimenti di sfiducia e talvolta di incredulità verso le versioni ufficiali dei fatti. Insinua persino sospetto sulla reale origine del terrorismo.
Ma non è così facile passare dalla segnalazione all’arresto. Ssiamo davanti ad un dramma giuridico-morale che investe la natura stessa delle democrazie occidentali che l’Isis, il fanatismo islamico, i cani sciolti carichi di violenza e disprezzo vogliono distruggere: è il dramma delle legislazioni di garanzia e di libertà costituzionali che risulta essere inadeguato nei confronti di un odio cieco e spesso suicida, che quindi non ha niente da perdere né alcuna garanzia da pretendere, neanche il basilare habeas corpus. Il corpo, anzi, è allo stesso tempo arma e strumento finale di morte, oggetto di lotta e sfida, non soggetto e persona. Come e cosa puoi garantire, a chi si auto-degrada ed annulla, nella degradazione ed annullamento degli altri esseri umani? Eppure:
Nessuno può essere arrestato arbitrariamente (art. 9) , dice la dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo. Nessuno può essere arrestato se non in base ad una legge che preveda un dato comportamento come reato; ma quando un comportamento è “reato”? Per definirlo si ricorre al principio di offensività, che recita: “non vi può essere reato senza offesa a un bene giuridico, cioè a una situazione di fatto o giuridica, carica di valore, modificabile e quindi offendibile per effetto di un comportamento dell’uomo”. Nullum crimen sine iniuria.
Nel caso dei soggetti “conosciuti, attenzionati, controllati dalle forze dell’ordine”, è complicatissimo, se non impossibile, individuare il bene giuridico che viene offeso, leso, dai comportamenti spesso vaghi ed estemporanei, di tali soggetti: scrivere frasi ostili o insulti ad un Paese sui social network , o esprimere il desiderio di fare del male, quale effettivo bene giuridico comprometterebbe? Pensiamoci bene… Tutti noi, una volta o l’altra, ci siamo lasciati andare ad invettive, invettive violente, contro un politico, una nazione, un gruppo sociale, etnico, religioso….e magari abbiamo evocato, certo, sì, esagerando, conseguenze estreme, sui social. Possiamo essere per questo arrestati ed internati? Qualcuno potrebbe spingersi a dire dire che nel caso di questi islamisti (che sono nella stragrande maggioranza dei casi cittadini europei) “è diverso”, ma ancora la Dichiarazione Universale recita che Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione. (art. 7)
La valutazione della casistica assume allora una dimensione diversa: i servizi segreti e le polizie dei paesi europei stanno facendo un lavoro immane e capillare, e sono riusciti a mettere perlomeno sotto osservazione, quando non sotto continuo monitoraggio, centinaia, migliaia di possibili terroristi, possibili assassini, probabili fiancheggiatori di quell’universo parcellizzato che si chiama “Isis”. Ma finché gli attenzionati non compiono l’azione criminale, non possono essere fermati. Possono essere, questo sì, controllati, ma ciò richiede un dispendio di energie inimmaginabile da parte dello Stato ad ogni livello, da quello organizzativo, a quello burocratico, da quello economico e sopratutto da quello umano: ricordiamo che giusto nel giorno 20 aprile, quello dell’attentato di Parigi, i poliziotti avevano protestato per i turni massacranti e gli impegni usuranti ai quali sono sottoposti incessantemente dal giorno delle precedenti stragi, il 13 novembre 2015: diciotto mesi nei quali la Francia è sostanzialmente in stato di emergenza continuativo, con migliaia di siti da presidiare, migliaia di perquisizioni da effettuare, migliaia e migliaia di cittadini e stranieri da controllare; oltre naturalmente alla ordinaria amministrazione di ordine pubblico e indagini, e oltre al lungo periodo elettorale. Sfibrati e stanchi, logorati e spossati, i poliziotti francesi hanno visto due loro colleghi feriti gravemente ed un terzo morire sotto i colpi di un quasi inarrestabile, in tutti i sensi, omicida.
La situazione non può reggere, le schegge (impazzite o lucidissime) che si muovono senza sosta all’interno dei paesi europei e attraverso le loro frontiere, sanno di poter contare su una disparità infinita in termini di tempo-energia: uno solo di loro può tenere in scacco dozzine di uomini dello stato per mesi, mentre un altro, all’improvviso, ruba un camion e si schianta sulla folla in un’altra città. E magari avendolo pure “promesso” su Facebook.
Così, rispettando le garanzie costituzionali ed internazionali, abbiamo le mani legate, siamo un bersaglio indifeso e una infelice combinazione di garantismo e liberalismo imbelle. È questo il dilemma.
Un esempio? Eccolo, il più attuale possibile: Karim Cheurfi, l’assassino, il terrorista, che il 20 aprile ha aperto il fuoco con un kalashnikov sugli Champs Elysees, ovviamente “noto ai servizi e alla polizia”, ha una storia giuridica – appunto – esemplare.
Nel 2001 aveva rubato una macchina. Intercettato da una pattuglia, era fuggito ma aveva finito con lo scontrarsi con un’auto sulla quale viaggiavano due fratelli. Nel continuare la fuga a piedi, aveva aperto il fuoco (ebbene sì, era armato) contro uno di loro e contro un poliziotto, ferendo quest’ultimo gravemente al torace. Portato in prigione, era riuscito a sottrarre una rivoltella ad un altro poliziotto, e gli aveva sparato addosso. Per questo era stato processato per triplice tentato omicidio e, nel 2003, condannato a 20 anni di prigione. Cosa ci faceva, dunque, Karim Cheurfi, il 20 aprile sera sugli Champs Elysees, dove ha ucciso e dove è stato ucciso?
Nel 2005, nel processo di appello, la sua pena è stata ridotta da 20 a soli 5 anni di carcere, in nome di quella proporzionalità e volontà di rieducazione delle quali le aule giudiziarie europee sono infuse. Nessuno, allora, avrebbe mai potuto prevedere la tragica progressione criminale di Cheurfi; ma questi non aveva comunque smesso di delinquere, ed aveva subito altri arresti, ed altre condanne: sempre insufficienti ad eliminare, contenere, tale pericolo per la società, dato che la legge francese, come quella di quasi tutto l’occidente, non prevede poi grosse conseguenze per i recidivi. Colmo dei colmi: l’ultima volta, Karim era stato arrestato lo scorso 23 febbraio per avere minacciato la polizia ed era poi stato rilasciato per mancanza di prove. Il giudice responsabile dell’applicazione delle pene non ha ritenuto che ci fossero motivi sufficienti perché Cheurfi tornasse in carcere. Quindi, la parte repressiva, poliziesca, aveva funzionato. È stata la parte garantista (lo sia detto nel senso giuridico e non politicizzato del termine) che ha dimostrato di essere inadeguata.
Ma, anche se ogni volta che una strage devasta l’Europa, ci sembra che la macchina giri a vuoto, dobbiamo comunque tenere conto che, grazie al lavoro incessante di un apparato immenso di uomini e mezzi, sono state decine e decine gli attentati sventati in tutto il continente: da quanto appreso, sono stati fermati attacchi contro obiettivi a Parigi, a Marsiglia, a Vienna, a Londra, in Costa Azzurra; una decina almeno gli attentati stoppati in Germania negli ultimi anni, e bloccati anche attacchi a Barcellona e a sinagoghe in molte località spagnole. Anche in Italia sono stati arrestati probabili kamikaze che progettavano stragi nella metro di Milano, a Pisa, a Venezia, a Roma, negli aeroporti. Insomma i frutti del lavoro costano tantissimo, in termini di impegno ed energie, ma ci sono.
Cosa dunque è necessario fare, a cosa dobbiamo arrivare? Dobbiamo, tenendoci stretti i diritti e le conquiste di civiltà giuridica occidentali, contemperando però il sistema garantista con il sacrosanto e primario diritto di tutti, di tutti, alla sicurezza e alla vita. Alla vita. Il nodo, il grande nodo, è questo. Per il resto, qualcosa è stato fatto, quasi esclusivamente sul fronte repressivo, un po’ su quello preventivo, non molto su quello delle garanzie. Scorriamo i provvedimenti più interessanti.
La Francia, dopo la tragica notte del Bataclan, ha approvato una serie di nuove norme. Intanto, da allora, vige nel paese l’etat d’urgence, un particolare di stato di emergenza decretato durante situazioni ritenute eccezionali. Già messo in atto nel 1955 durante la guerra di indipendenza dell’Algeria e nel 2005 dopo le rivolte delle banlieue, permarrà sino alla fine di luglio del 2017, salvo rinvii. La legge che istituisce lo stato d’urgenza permette ampia manovra alle forze di polizia, e scavalca alcune autorizzazioni della magistratura, sopratutto in termini di perquisizioni ed altri atti di indagini. È aumentata la sorveglianza su internet con limitazioni della privacy, e si sono strette le maglie anche sulla stampa (nel campo della segretezza delle fonti). È stato introdotto il reato di apologia del terrorismo.
Nel 2016, sono state introdotte novità e riforme di circa una ottantina di norme giuridiche, che hanno le finalità principali nello snellire e sveltire le indagini (ad esempio, la polizia potrà accedere a banche dati informatiche senza previa autorizzazione del magistrato preposto) e nel bloccare i “lupi solitari”, sia introducendo il reato di “impresa terroristica individuale”, in modo da attribuire la responsabilità di – appunto – terrorismo anche a chi “crea un pericolo per gli altri con materiale, armi e sostanze” tutto da solo, senza che ne sia provato il disegno destabilizzatore di una ideologia od organizzazione, e, in un tentativo di prevenzione, il divieto di espatrio ed il ritiro del passaporto per chi sia sospettato di diventare un foreing fighter.
Anche l’Italia si è mossa con importanti provvedimenti legislativi, in particolare col decreto legge 18 febbraio 2015 n. 7, sono state introdotte nuove misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale.
Per molti aspetti è simile a quella francese,(e questo è sicuramente un bene perché permetterà coordinamenti ed estradizioni più facili): si va dalla possibilità di controllare, intercettare e cancellare materiale propagandistico jihadista dal web, corresponsabilizzando i provider, alle aggravanti specifiche quando si tratta di istigazione, detenzione di armi o falsificazioni di documenti a scopi terroristici.
Chi si arruola per il compimento di atti di violenza, con finalità di terrorismo è punito con la reclusione da 5 a 8 anni. Stessa pena per coloro che organizzano, finanziano o propagandano viaggi finalizzati al compimento di condotte terroristiche. Prevista per loro la custodia cautelare in carcere, quindi nessuna libertà in attesa del processo.
Viene prevista la reclusione da 5 a 10 anni per colui che, pur essendosi addestrato da solo, ovvero avendo autonomamente acquisito le istruzioni «sulla preparazione o sull’uso di materiali esplosivi, di armi da fuoco o di altre armi, di sostanze chimiche o batteriologiche nocive o pericolose, nonché di ogni altra tecnica o metodo per il compimento di atti di violenza ovvero di sabotaggio di servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo», pone in essere comportamenti univocamente finalizzati al terrorismo internazionale. Alla condanna per associazione terroristica, assistenza agli associati, arruolamento e organizzazione di espatrio a fini di terrorismo consegue obbligatoriamente la pena accessoria della perdita della potestà genitoriale “quando è coinvolto un minore” .
Sarà interessata al complesso delle indagini la Procura Nazionale antimafia.
Per una analisi approfondita della norma, comunque, consigliamo la lettura di questo documento.
Nel 2016, inoltre, è stata approvata un’altra legge, la 153, che, agendo sul profilo economico, introduce i delitti di finanziamento di condotte con finalità di terrorismo; di sottrazione di beni o denaro sottoposti a sequestro per prevenire il finanziamento delle condotte con finalità di terrorismo; il nuovo art. 270-septies c.p. prevede la confisca obbligatoria, in caso di condanna per i delitti commessi con finalità di terrorismo. Infine si crea lo specifico reato di terrorismo nucleare (art. 280-ter c.p.)
Per quanto riguarda la prevenzione, che è il tema di fondo di questo articolo, l’Italia ha cominciato una intensa campagna di espulsioni di soggetti che, per frequentazioni, possesso di materiale o esternazioni sui social, sono ritenuti “a rischio”. Gli ultimi dati disponibili, dati che sono in continuo aggiornamento, parlando di 169 espulsi dal gennaio 2015 alla fine di aprile 2017, 37 solo nell’anno in corso.
Ma c’è di più. In discussione in Parlamento c’è anche una proposta di misure specifiche contro il terrorismo di stampo islamico-fondamentalista, il cui titolo è “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento di matrice jihadista”. Il testo appare serio perché il primo firmatario, l’on. Stefano Dambrouso (eletto con Scelta Civica, e che, dopo la spaccatura di questa è rimasto, con altri colleghi, nell’ala non verdiniana della lista), non solo è un magistrato, ma è anche un esperto del tema, che da quasi vent’anni si occupa, prima come PM a Milano, poi in organizzazioni sovranazionali, proprio di indagini e lotta alle forze, trame e cellule jihadiste in Italia e nel mondo.
Se la legge verrà approvata così come è, e qua c’è il testo completo, essa prevederà:
– innanzi tutto, una prima definizione di radicalizzazione, che è individuata nei fenomeni che vedono persone simpatizzare o aderire “manifestamente” ad ideologie di matrice jihadista, ispirate all’uso della violenza e del terrorismo, politicamente o religiosamente motivati;
– poi prevede l’istituzione del Centro nazionale sulla radicalizzazione (CRAD) presso il Dipartimento delle libertà civili e dell’immigrazione del Ministro dell’interno, con funzioni di controllo, coordinamento, ispezione presso altri enti ed istituti, proposta e prevenzione;
– anche a livello locale, sono previsti Centri di coordinamento regionali sulla radicalizzazione (CCR) presso le Prefetture ai quali parteciperanno il Prefetto, gli amministratori locali, gli operatori sociali, i sindacati;
– sarà istituito un Comitato per il monitoraggio dei fenomeni di radicalizzazione e dell’estremismo violento di matrice jihadista composto da cinque deputati e cinque senatori, che dovrà vigilare, in particolare, negli ambienti scolastici, ospedalieri, carcerari, per individuare devianze ma anche vittime (in particolare donne e minori) di pressioni jihadiste;
– molta attenzione è dedicata alla scuola, dove saranno introdotti programmi di valorizzazione dell’educazione interculturale del rispetto delle differenze e il dialogo tra le culture, e di integrazione degli alunni stranieri; in particolare, ci piace il passaggio in cui si prevede di “attrezzare la scuola a vivere gli scenari della globalizzazione, come apertura ai processi di interdipendenza, di pluralismo culturale, di scambio, ma anche di valorizzazione dei segni distintivi della cultura europea (democrazia, pari opportunità, nuovo umanesimo, coesione sociale, diritti civili)”;
– risorse importanti saranno destinate alla deradicalizzazione dei detenuti islamisti, attraverso precisi programmi carcerari; alla formazione universitaria e post – universitaria di specialisti, esperti nella prevenzione e nel contrasto alla radicalizzazione e all’estremismo violento di matrice jihadista, nel dialogo interreligioso, nelle relazione interculturali ed economiche e nello sviluppo dei paesi di emigrazione; nella cooperazione e collaborazione con i paesi dove il fenomeno jiahdista nasce e si espande.
Simili legislazioni speciali o inasprimenti delle norme preesistenti sono stati approvati nel Regno Unito, in Belgio, nei Paesi Bassi, in Germania, in Austria, Spagna ed altri paesi. Contro queste leggi si è scagliata, va detto per completezza di informazione, Amnesty International, che le ha definite discriminatore verso immigrati e stranieri ed, in genere, “orwelliane”.
Ma a livello sovranazionale come si può intervenire?
I codici penali e processuali sono competenze esclusive di singoli stati membri. L’Unione Europea e altre organizzazioni sovranazionali possono essere un utile luogo di confronto e coordinamento, ma non di più. La UE ha sviluppato un progetto a vasto raggio che sicuramente può essere utile, e che, se si superano tentazioni isolazioniste, sovraniste, egoiste e particolariste, può essere un buon punto di partenza, in attesa di quella cessione di sovranità che permetta finalmente un vero codice europeo e poter dare reali poteri e mezzi al Coordinatore Antiterrorismo.
Nel 2015-16 la Commissione Europea ha definito sette aree specifiche di coordinamento tra gli stati membri. Esse dovranno (e citiamo direttamente dal sito ufficiale) :
– Contrastare la propaganda terroristica e gli incitamenti all’odio online lavorando con il settore delle tecnologie dell’informazione per fermare la diffusione dei contenuti illegali che incitano alla violenza.
– Affrontare il problema della radicalizzazione nelle carceri: scambiando esperienze tra Stati membri al fine di elaborare orientamenti su meccanismi e programmi.
– Promuovere un’istruzione inclusiva e i valori comuni dell’UE utilizzando finanziamenti dal programma Erasmus+ (ed è in questo senso, quello dei valori, che si è recentemente espressa la nostra Corte di Cassazione, in una decisione che abbiamo trattato in questo articolo di Francesco Moroni)
– Promuovere una società inclusiva, aperta e resiliente e in contatto con i giovani: per esempio, la Commissione svilupperà uno strumentario destinato a chi opera a più stretto contatto con i giovani e che servirà a individuare e affrontare la radicalizzazione violenta.
– Rafforzare la collaborazione internazionale: l’UE aiuterà i paesi terzi che si confrontano con sfide analoghe.
– Sostenere la ricerca, la raccolta di informazioni, il monitoraggio e le reti: produrre strumenti concreti e analisi strategiche per una migliore comprensione del processo di radicalizzazione,
– Prestare attenzione alla dimensione securitaria: per prevenire la radicalizzazione serve anche un approccio securitario di base con misure di contrasto delle sfide immediate e a lungo termine, come i divieti di viaggiare e la criminalizzazione dei viaggi verso paesi terzi a fini terroristici, già proposti dalla Commissione. Gli Stati membri devono aumentare la condivisione delle informazioni, sfruttare appieno i quadri di cooperazione e gli strumenti di informazione in materia di sicurezza e rafforzare l’interconnessione dei sistemi di informazione.
Da sottolineare come la legge di Dambruoso si ispiri in molte parti direttamente ed esplicitamente a queste indicazioni.
Insomma, la battaglia è di civiltà, lo abbiamo detto. Nei territori non europei, quelli iracheni, siriani, libici e di altre nazioni, dove l’Isis ha preso il controllo, le notizie di irriferibili atrocità, diffuse con video nei quali le decapitazioni con coltelli sono le scene meno spaventose, ci mostrano che abbiamo davanti un idra dalle mille teste capace di qualsiasi orrore immaginabile, ed anche di orrori inimmaginabili. Davanti a simili comportamenti, ed ai corpi dilaniati delle ragazzine di Manchester, è forse giunto il momento di garantire, prima di tutto, che questi crimini vengano fermati, per sempre. Forse con qualche piccola deroga agli Alti Principi di Reinserimento, e con qualche piccolo sacrificio individuale in termini di privacy.