di Francesco Moroni
Con la sentenza n. 24084, depositata ieri, la prima sezione penale della Cassazione ha rigettato il ricorso di un indiano Sikh, condannato a duemila euro di ammenda per aver portato, fuori dalla propria abitazione, e senza alcun giustificato motivo, un coltello di quasi 20 centimetri, quindi considerato idoneo all’offesa. Per essere assolto, l’indiano aveva sostenuto che il coltello in questione doveva considerarsi un simbolo religioso e quindi, portandolo con sé, non faceva che adempiere ad un precetto confessionale.
Le grossolane sintesi giornalistiche diffuse a botta calda hanno indirizzato il dibattito su una china un po’ scivolosa ed equivoca. Ad una più attenta e approfondita lettura della motivazione, invece, la nebbia si dirada. La Suprema Corte ha rilevato l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, nonché di verificare preventivamente la conciliabilità della propria condotta con i principi che regolano la società in cui va a vivere. In una società multietnica, la convivenza tra soggetti di differente etnia e credo religioso richiede l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere.
L’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, ma esige comunque, quale limite per tutti invalicabile, il rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante. Non è tollerabile che l’attaccamento ai propri valori culturali e religiosi, anche se leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante.
E non si tratta tanto di labili, mutevoli, generici, opinabili, soggettivi valori di un singolo Paese la qual cosa che rischierebbe di innescare un pericoloso conflitto culturale; si tratta invece quanto piuttosto di un nucleo forte di principi consolidati di civiltà giuridica, laicità, tutela della pubblica sicurezza che costituiscono ormai il sostrato comune degli ordinamenti giuridici dei Paesi democratici, al di là dei limiti di ogni democrazia e dei difetti del fin troppo vituperato Occidente. Ciò emerge del diritto vivente, oggettivo, alla luce della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale.
Non a caso, nella motivazione i giudici hanno richiamato, oltre alla legislazione italiana, anche l’articolo 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, il quale stabilisce che la libertà di professare la propria religione può essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell’ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, ovvero per la protezione dei diritti e della libertà altrui. Abbiamo salutato con comprensibile favore l’introduzione, nel nostro codice penale, del reato di mutilazioni genitali femminili, rigettando qualsiasi tolleranza e riconoscimento di una pratica orrenda come l’infibulazione, parte integrante del turpe ma consolidato bagaglio valoriale di gruppi etnici che applicano la sharia e non solo.
Nella stessa ottica, nel caso meno preoccupante, ma comunque emblematico, del coltello dell’indiano Sikh, all’insegna di un intelligente bilanciamento di valori che non nega la libertà religiosa, è stato sacrosanto riaffermare in linea di principio la prevalenza, a prescindere dai precetti della confessione di volta in volta chiamata in causa, di un nucleo inscalfibile di principi di civiltà giuridica nei quali si sostanzia la legge, ombrello comune che tutti garantisce e argine contro spinte centrifughe e disgregatrici.