Come saranno approvate le leggi con la riforma costituzionale Renzi-Boschi?

SPECIALE REFERENDUM COSTITUZIONALE2016/2

di Gabriele Pazzaglia

Premessa: come tutto è cominciato

Il 4 dicembre 2016 il Popolo italiano sarà chiamato ad esprimersi sulla riforma della costituzione approvata dal Parlamento lo scorso aprile. Con quel voto è terminato un iter cominciato due anni prima, nell’aprile 2014, quando il Governo presentò, a firma congiunta del Presidente del Consiglio Mattero Renzi, e del Ministro dei Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, una proposta di legge di modifica di molti articoli della seconda parte della Costituzione (quella che regola il funzionamento delle istituzioni, mentre la prima parte è dedicata ai diritti e doveri dei cittadini e residenti).

Come è noto, per cambiare la Costituzione, non basta un semplice voto della Camera e del Senato sullo stesso testo, come per le leggi ordinarie. Il procedimento costituzionale ha due deliberazioni, cioè, due fasi. La prima è per la ricerca dell’accordo, che può richiedere anche molte votazioni, e si conclude quando Camera e Senato approvano lo stesso identico testo. Questo viene poi rivotato, sia dalla Camera che dal Senato, ma per diventare immediatamente norma costituzionale deve ricevere i 2/3 dei voti parlamentari. Se invece vota a favore “solo” la maggioranza allora può essere richiesto il referendum, dal Parlamento stesso, dai consigli regionali o da 500.000 elettori. E così è successo: infatti il procedimento di questa riforma ha avuto in tutto 6 votazioni. Nella prima, l’8 agosto 2014, al Senato è stato votato l’accordo sulla maggior parte delle norme. Nelle successive votazioni della Camera, marzo 2015, e nuovamente il Senato, ottobre 2015, sono state inserite modifiche di dettaglio. Da quel momento il testo è rimasto invariato nelle successive tre votazioni.

Possiamo dunque dire che la struttura portante della riforma, che analizzeremo tra poco, è stata decisa nella prima votazione. Alla quale, dobbiamo sottolineare, Forza Italia, oggi schierata per il NO, votò a favore. Era l’epoca, l’agosto del 2014, qualcuno ricorderà, del Patto del Nazareno: l’accordo, del quale non è mai stato precisato il contenuto, tra il Partito democratico e Forza Italia. Di sicuro, però, c’era il fatto che del “patto” facessero parte la riforma elettorale e quella costituzionale. Perciò Forza Italia votò convintamente a favore: il capogruppo Romani dichiarò che la riforma «porta due firme, quella di Matteo Renzi e quella di Silvio Berlusconi». Non solo: rivendicò la paternità sostanziale della proposta che considerava «la naturale evoluzione di quella avviata dal Governo Berlusconi nel 2005». Ma già nella successiva votazione alla Camera nel marzo del 2015, il partito votò compattamente contro (64 deputati su 65) perché considerava rotto il Patto del Nazareno a seguito dell’elezione di Matterella alla Presidenza della Repubblica. Se Forza Italia non brilla per linearità, non lo fa neanche tutta quella parte del PD che chiese nel 2005 di votare contro la riforma della Costituzione del centro-destra, ed oggi è favorevole ad una riforma molto simile. Coerentemente contrari, sin da subito, la cosiddetta sinistra PD e il Movimento 5 stelle. Benché la prima, a questo punto, non è più dato sapere se voglia una riforma costituzionale (e quale), dopo aver attivamente partecipato all’oramai trentennale dibattito sul tema (e alla bicamerale). Il M5S, poi, dobbiamo ricordarlo, ha (avrebbe) come fine ultimo quello di cancellare la democrazia rappresentativa per giungere ad un non meglio identificato sistema di democrazia diretta, che prevederebbe quindi una cancellazione della attuale Costituzione, altro che difenderla

Una critica, espressa spesso proprio dal M5S, ha riguardato “l’illegittimità” del Parlamento, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità del premio di maggioranza della legge elettorale Calderoli. La Corte, precisò, in quella sentenza, che la dichiarazione valeva solo per il futuro e rimanevano legittimi gli organi eletti con la legge illegittima. Giuridicamente, quindi, il massimo organo di garanzia dello Stato ha stabilito la supremazia del principio di continuità degli organi costituzionali. Ma politicamente, non si può negare, risulta priva di solida legittimità una (grande) riforma se il Parlamento non rappresenta il Popolo. Lo stesso art. 138 della Costituzione, che stabilisce il procedimento di revisione che abbiamo poco sopra spiegato, fu scritto inoltre in un momento nel quale era considerata insostituibile una legge elettorale proporzionale. Probabilmente conscio di questa intrinseca debolezza, il Presidente del Consiglio ha manifestato, sin dalla metà del 2014, la volontà di ricorrere comunque al referendum con l’idea che il voto popolare ratificasse la decisione e sanasse ogni dubbio((Referendum che è stato indetto perché non sono stati raggiunti i 2/3 dei voti parlamentari. Se la soglia fosse stata raggiunta il voto popolare non sarebbe sato possibile, perché vietato dall’art. 138. Come il Presidente del Consiglio tenesse insieme, dunque, il ricorso al referendum e l’appoggio di Forza Italia, resta ad oggi un mistero.)). Il risultato però è una torsione dell’istituto del referendum che, da strumento contro-maggioritario come fu pensato dai costituenti, diventa così confermativo della decisione della maggioranza. Il rischio palese è quello di svalutare la Carta costituzionale facendola diventare l’atto imposto da una parte, invece che la cornice di tutti, proprio perché voluta da tutti((Per approfondire la giurisprudenza sui rapporti tra il Popolo e il Parlamento nel procedimento di revisione vedi la sent. 496 del 2000)).

Dunque, qualunque cosa si pensi delle singole modifiche, degli argomenti pro o contro, una valutazione complessiva non può prescindere dal giudicare anche questa pesante ipoteca: la pretesa della maggioranza di fare quello che si dovrebbe fare insieme. Peggio: di stravolgere ciò che dovrebbe essere appena sfiorato.


Referendum che, è bene precisare, non avrà quorum, dunque, il risultato sarà valido a prescindere dal numero di votanti. Non è un dettaglio da poco: a differenza del referendum abrogativo, la subdola tattica dell’astensione per unire i voti contrari all’astensione fisiologica, in questo caso non ha senso. Perché è un referendum confermativo.

Possiamo dunque entrare nel merito della riforma.

Un solo quesito.

Subito dopo l’approvazione parlamentare alcune forze politiche (tra le quali, la più attiva, i Radicali) hanno tentato di raccogliere le firme dei parlamentari necessarie a depositare in Cassazione cinque (o più?) quesiti invece di uno solo. Qualcuno può esserci rimasto male che il numero di firme minimo (1/5 del totale dei parlamentari) non sia stato raggiunto. E può aver pensato che sia l’ennesimo colpo di coda della classe politica per togliere potere ai cittadini. Ma così non è perché questa riforma ha un suo senso, e una sua logica, solo nella sua interezza. Se privata di una parte finirebbe o per perdere qualsiasi senso o assumerne uno completamente diveso, forse anche paradossale. Inoltre, a seconda delle vittorie dei tanti Sì o No possibili si potrebbe produrre un ventaglio di 25 nuove possibili costituzioni che nessuno ha mai pensato, proposto votato. Ad esempio: un elettore che vuole una nuova composizione del senato, può volerla solo a patto che cambino i suoi poteri. Oppure può accettare che diminuiscano i poteri delle regioni solo se queste trovino una rappresentanza nel nuovo senato. E così via per tutte le combinazioni possibili…

I nuovi procedimenti legislativi.
Complicare al grido di semplificare.

Per ogni problema complesso, c’è sempre una soluzione semplice.
Che è sbagliata.

George Bernard Shaw

Tutti sanno come si fanno le leggi oggi: quanto la Camera e il Senato votano lo stesso identico testo e questo diventa legge. Quindi, se votano due testi diversi, nessuno dei due è legge. L’art. 70, infatti, è molto chiaro ed essenziale prevedendo che «La funzione legislativa e` esercitata collettivamente dalle due Camere».

Questo principio regge tutta la produzione normativa, anche quando invece di una legge ordinaria, le norme sono prodotte dal Governo: è il caso dei decreti-legge, quando c’è «straordinaria necessità ed urgenza», e il Governo interviene immediatamente, con regole che entrano subito in vigore e devono essere successivamente ratificate dalle Camere entro 60 giorni, ovviamente votando un identico testo (modifiche comprese).

Così come devono approvare lo stesso testo quando con legge trasferiscono temporaneamente il potere legislativo al Governo per affrontare materie tecniche: le stesse parole per indicare la materia e i criteri direttivi che guideranno l’Esecutivo (la Legge Delega, che investe argomenti importantissimi: si pensi che è con questa formula che è passato il Jobs Act).

Dunque possiamo dire che in sostanza abbiamo un solo procedimento legislativo perché sempre, qualunque norma sia approvata, la Camera e il Senato devono votare lo stesso testo.

La riforma prevede invece sei diversi procedimenti nei quali i poteri degli organi variano:

  1. Monocamerale: è il procedimento ordinario, quello che dovrebbe essere utilizzato più spesso, che sarà seguito ogni volta nel quale non ne sia previsto un altro.
    L’esame del testo inizierà sempre alla Camera, che, approvato, lo trasferirà al Senato. Il testo diventerà legge se il Senato non si attiverà entro 10 giorni. Se invece decide di discuterlo, ha altri 30 giorni, dal momento della decisione, per proporre modifiche. Queste sono valutate dalla Camera che ha l’ultima parola e che quindi è il vero decisore dato che il Senato ha solo una funzione di consulenza. Si può dire che dunque la “navetta” non è abolita completamente
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  2. Bicamerale: rimarrà un procedimento che è esattamente uguale all’attuale. Una proposta diventa legge se votata nello stesso identico testo da entrambe le Camere. Dunque il bicameralismo paritario, non viene «superato», come dice il titolo della riforma, ma viene semmai ridotto. E rimane in alcuni ambiti molto importanti, le cosiddette “leggi di sistema”, le leggi che riguardano il Senato stesso, e quelle che riguardano gli enti locali: per capire se e quanto questo procedimento sarà usato, e dunque se e quanto il nuovo Senato avrà potere, è necessario entrare nel merito di ognuna di esse((Le competenze sono di difficile lettura perché sono contenute, altre all’articolo 70 anche in una serie di articoli ai quali lo stesso rimanda: 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma.))

-Le leggi di sistema

– Su tutte, l’ambito più importante nel quale il Senato avrà gli stessi poteri della Camera è la revisione della Costituzione. Si nota una certa contraddizione, un paradosso, nell’appellarsi al popolo per cambiare l’attuale Costituzione e poi nell’affidare le possibili modificazioni future all’assenso di un organo, in nuovo Senato, che non sarà eletto direttamente. Sì, perché l’attuale articolo che stabilisce come modificare la Costituzione, il 138, rimane uguale, e dunque saranno ancora necessari i 4 passaggi di cui abbiamo parlato sopra. Ma con una delle Camere che non sarà “politica” nel senso in cui la intendiamo oggi.

– Le regole sulle relazioni Stato-Unione Europea: anche questo (grande) argomento sembra eccessivo rispetto alle caratteristiche del nuovo Senato. Non si tratta, sia chiaro, di fare partecipare il Senato a tutte le decisioni che riguardano norme europee. Per capire di cosa si tratta è necessario sapere che lo Stato partecipa a produrre norme, insieme all’Unione Europea, nei settori nei quali questa è competente, in due momenti: prima, interviene nel procedimento di formazione delle regole, con il Governo italiano nel Consiglio dell’Unione Europea che vota a favore di ogni atto europeo e, dopo che questo è approvato, lo Stato deve attuare quelle decisioni, tramite altre norme o stanziamenti di bilancio per raggiungere gli obiettivi fissati dalla UE. Cosa decidere di volta in volta nella singola materia (commercio, pesca, concorrenza etc…) sarà svolta con il procedimento ordinario (tutto il potere alla Camera) mentre con procedimento bicamerale si fisserà la procedura che Governo e Camera dovranno seguire per svolgere in concreto le attività di formazione e attuazione delle decisioni (quindi dagli obblighi informativi, ai tempi dell’esame parlamentare, al potere di indirizzo della Camera, la nomina dei rappresentanti italiani a Bruxelles…etc)((Oggi regolata dalla recente Legge 24 dicembre 2012, n. 234)). Con lo stesso procedimento bicamerale saranno votate le modifiche ai Trattati istitutivi della UE. Dunque quando e se vorrà entrare o un nuovo paese, o si vorrà modificare il meccanismo istituzionale o cedere nuova sovranità, il Senato avrà una sorta di veto. Sembra una contraddizione che un’Assemblea alla quale è stato tolto il voto di fiducia in favore del Governo possa così intensamente condizionare la sua azione. Sarebbe stato più ragionevole, forse, dare la competenza alla sola Camera prevedendo una maggioranza più alta, come stabilito in praticamente tutti i paesi europei.

– Sempre leggi di sistema possono essere considerate la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum e le proposte di legge popolari. Tratteremo approfonditamente di questi ultimi due istituti nel prossimo articolo, qui interessa sottolineare è che queste tre materie possono essere considerate di sistema proprio perché la Costituzione limita il ruolo del Senato alle sole «leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali». Ma ciò è molto ambiguo: oltre alla difficoltà naturale di distinguere in questi ambiti cosa sia attuazione della Costituzione e cosa no, la “tutela della minoranze linguistiche” è una materia indefinita, trasversale che può assorbire qualunque altra, rendendo assolutamente indeterminata la competenza: se si tratta di una riforma della giustizia, della scuola, della pubblica amministrazione, del cinema, dell’editoria sarà sempre sarà possibile ricadere in questa materia come dimostra l’utilizzo strumentale che di essa si è fatto in questo anni proprio al Senato: l’art. 113 del Regolamento prevede la possibilità di ottenere il voto segreto quando si tratta di questa materia e è stata costante la tendenza dell’opposizione di turno a sfruttarla per destabilizzare la maggioranza.

Le leggi di interesse regionale

– Concessione alle regioni (o ad alcune di esse) di autonomia maggiore rispetto a quella prevista dalla Costituzione.
Di cosa si tratta: Con la riforma del Titolo V del 2001 è stata introdotta la possibilità di, per così dire, “delegare” alle regioni competenze ulteriori a quelle previste in Costituzione. Cioè l’amministrazione della giustizia nei casi meno gravi, l’istruzione, l’ambiente, i beni culturali (che sono esclutive statatali) e tutte le materie oggi concorrenti. La riforma prevede una diminuzione di questa possibilità di delega. Invece che in tutte le materie concorrenti, sarà possibile, oltre alle quattro appena dette, anche in “politiche sociali”, “promozione dell’occupazione”, “commercio con l’estero” e “governo del territorio”. In nessun altro caso potrà avvenire.
Una modifica coerente con l’obiettivo (ri)accentrare molte competenze che nel 2001 erano sttate date alle regioni. Giudicare la modifica è difficile perché a 15 anni dall’introduzione della possibilità della delegaà, nonostante varie richieste da varie regioni, e la presenza al governo di una forza politica come la Lega Nord, nessuna autonomia ulteriore è stata mai concessa. Solo quando le forze politiche prenderanno sul serio questa possibilità, allora sarà possibile esprimere un giudizio. Sul punto, per ora, possiamo solo dire che per l’inerzia della calsse politica non cambia nella nella sostanza.

– Relazioni internazionali e con l’Unione Europea delle regioni, che tornerà ad essere competenza esclusiva statale mentre oggi è concorrente.

– Il potere di sostituzione dello Stato nei confronti di regioni ed enti locali, il quale può e potrà procedere al loro posto quando queste non rispettino norme internazionali o europee, quando c’è pericolo per l’incolumità pubblica o quando è necessario mantenere l’unità giuridica ed economica sul territorio nazionale o i livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali((Oggi disciplinato con la legge 131/2003)).

– Il distacco di Comuni da una regione all’altra.

– Le norme istituzionali di regioni e enti locali. Con questa precisazione: relativamente a Comuni e Città metropolitane, lo Stato potrà stabilire nel dettaglio le funzioni, gli organi di governo, il sistema elettorale e, in generale l’«ordinamento» dell’ente (compreso quello di “Roma Capitale”)((Oggi è il Decreto Legislativo 18 agosto 2000, n. 267)). Relativamente alle regione potrà stabilire solo “principi”, quindi norme che dovranno essere dettagliate dalla regione stessa e solo relativamente al sistema elettorale e e all’ineleggibilità delle varie cariche. In quest’ultimo caso, dunque, oltre a dare rappresentanza nazionale alle varie regioni, che saranno nel Senato, si lascia che ognuna di esse abbia una normativa di dettaglio diversa dalle altre. Forse, se uno scopo il Senato regionale poteva averlo, era proprio l’unificazione delle forme istituzionali decentrate.

– Le leggi sul Senato
Il funzionamento della Camera, sarà deciso con il procedimento ordinario, cioè dalla Camera stessa, sostanzialmente da sola, perché il Senato sarà solo consulente. Quando si deciderà sul Senato, invece, le due Camere lo faranno insieme: Sarà così per i casi di ineleggibilità e incompatibilità dei senatori e il sistema elettorale. Sistema elettorale che, per per la prima elezione è stabilito dalla stessa riforma costituzionale all’art. 39 che procede un sistema formalmente proporzionale ma la cui proporzionalità sarà relativa non ai voti espressi dal popolo alle elezioni regionali, ma ai seggi che sono stati concretamente ottenuti dopo l’applicazione del premio di maggioranza che tutte le regioni hanno. Dunque un sistema elettorale, che fin dalla prima elezione non sarà proporzionale, ma sovra rappresenterà i partiti maggiori. Rimandiamo al prossimo articolo sulla composizione del Senato l’approfondimento su questo punto.

L’articolo che regola il procedimento bicamerale si chiude con l’obbligo che le leggi con esso prodotte abbiano uno ed un solo oggetto e possano essere «abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa». È una benemerita norma di buona tecnica legislativa sia avere tutte le norme in un solo testo organico, sia abrogare le norme in modo palese e non tacitamente (come avviene quando si approva una regola incompatibile con la precedente senza però eliminarla) perché quando il legislatore fa confusione tutto è nelle mani dell’amministrazione e del giudice che, anche in buona fede, possono decidere in modo diverso caso per caso creando disparità. Il problema è che nessuno si è chiesto cosa succede se il futuro Parlamento non dovesse unificare più testi che già oggi disciplinano la stessa materia e si limitasse invece a modificare uno di essi. Ad esempio le norme sugli enti locali sono sparpagliate in una serie di atti: dalla legge Delrio, ad una serie di Decreti Legge, a Leggi di Stabilità fino al Testo Unico del 2000 (che, quindi, non è unico). Se il legislatore modifica uno solo di essi senza procedere ad accorparli la modifica è valida? O è incostituzionale? Il tempo, e soprattutto la Corte costituzionale, ce lo diranno.

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  1. Clausola di supremazia: lo Stato potrà pretendere di legiferare anche in materie che la Costituzione riserverebbe alle regioni. Per capire cosa cambierà è necessario sapere che già oggi lo Stato, quando ritiene necessario intervenire in ambiti regionali, può farlo, ma ha bisogno di coinvolgere le regioni interessate nella decisione: a seconda dei casi deve infatti ottenere l’assenso della Conferenza Stato-regioni, o quello delle singole regioni, o un loro mero parere o altro ancora. Questo è il sistema risultante dalla riforma del Titolo V, votata nel 2010 in un referendum costituzionale, come quello attuale, dai cittadini (tra i quali il giovane margheritino Matteo Renzi, come da lui stesso dichiarato). Con la modifica che voteremo, invece, quando lo Stato vorrà “prendersi” delle competenze che la Costituzione in prima battuta assegna alle regioni, potrà farlo con un semplice voto della Camera dei deputati su un progetto di legge che dichiari l’interesse nazionale della materia in questione. Il Senato potrà opporsi votando contro alla legge: ma a quel punto la Camera potrebbe comunque superare il diniego e decidere definitivamente. In questo gioco tra diniego e contro-diniego, tanto per farla più complessa, ci sono maggioranze variabili: solo se saranno contrari la maggioranza dei componenti del Senato (quindi almeno 51) la Camera avrà bisogno anch’essa della maggioranza dei componenti (quindi almeno 316). Altrimenti le basterà la maggioranza dei presenti: cioè la stessa maggioranza che ha approvato la legge alla priva votazione, rendendo così l’apporto del Senato più un’inutile rallentamento che un’effettiva difesa e valorizzazione delle prerogative locali.

    Una clausola di questo tipo, che permetta di superare particolarismi locali a fronte dell’interesse di tutti, è auspicata dalla stragrande maggioranza della dottrina costituzionalistica. La critica è che il sistema, dopo l’eccesso “federalista” risulti sbilanciato dall’altra parte. Anche contando che, se rimarrà la legge elettorale in vigore, il cd. Italicum, vi sarà il premio di maggioranza di 340 seggi al partito vincitore, ben oltre i 316 che costituiscono la maggioranza dei componenti.

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  2. Il procedimento per il bilancio, cioè del documento che spiega come e in cosa l’amministrazione spenda i soldi di tutti, sarà approvato con una variante del procedimento ordinario e dunque la Camera dei deputati sarà il reale decisore, l’Assemblea che avrà l’ultima parola, mentre il Senato avrà un ruolo di consulenza. Solo che in questo frangente l’esame del Senato è obbligatorio, e non facoltativo come abbiamo visto in precedenza, e che esso avrà 15 giorni invece di 30 per esprimersi. Una modifica minimale. Ciò che è interessante è cosa si intenda per “bilancio”: l’articolo 70 si limita a rinviare «all’art. 81 quarto comma» che stabilisce che sono obbligatori due documenti, il bilancio, appunto, cioè quello preventivo, e il rendiconto consuntivo, cioè a fine anno. Ma cosa contengono concretamente questi documenti? Fino ad oggi, solo cifre e non regole, solo il risultato contabile, previsto e realizzato, nell’anno. Le norme invece erano contenuto in un atto separato, anche se strettamente collegato e quasi contestualmente approvato che era la legge di stabilità (già finanziaria). Ma proprio da quest’anno è entrato in vigore un cambio, previsto dal 2012, che ha stabilito che tutto sia incorporato in un solo documento, che sarà il futuro bilancio, che avrà una prima parte normativa e poi una contabile. Dunque, è fuori discussione che questo procedimento, sostanzialmente una variante velocizzata di quello ordinario, sarà applicabile anche per le regole fiscali ed economiche. L’unico limite lo stabilisce la legge che regola il bilancio stesso: deve trattarsi di «disposizioni con effetti finanziari» mentre sono espressamente vietate «deleghe, norme ordinamentali o organizzatorie e interventi localistici e microsettoriali».

    Sembra dunque che difficilmente possano essere approvate norme che necessitano del procedimento bicamerale. Le uniche, forse, sarebbero le norme sulle funzioni degli enti locali. Ma visto che non si possono porre limiti alla fantasia, è bene avere chiaro che se questo procedimento fosse utilizzato per eludere quello bicamerale, e dunque le prerogative del Senato, la sorte delle norme sarebbe segnata dall’incostituzionalità. Lo stesso se questo procedimento fosse utilizzato per “rosicchiare” sovranità delle regioni.

    Questo procedimento, dunque, è in linea con il disegno complessivo di concentrare nella Camera le decisioni fondamentali. Si può dire che sia opportuno dato che nel sistema attuale, che prevederebbe un dibattito tanto alla Camera quanto al Senato, non c’è un approfondimento in nessuna nelle due istanze. C’è invece una dialettica tra il Governo, i partiti di maggioranza, e la ragioneria dello Stato con l’esito scontato della questione di fiducia che ferma i giochi e porta al voto senza discussione. È accettabile, dunque, questo nuovo sistema, solo se porta alla rivitalizzazione della Camera, ad un vero ed approfondito dibattito anche sulla verifica dei risultati del bilancio precedente (cosa che mai avviene). È accettabile dunque, solo se si prevede a livello regolamentare uno spazio concreto per l’opposizione, il divieto della questione di fiducia, e un tempo minimo per la discussione.

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  3. Il voto a data certa, sarà uno strumento in mano al Governo che potrà chiedere che un disegno di legge sia votato entro 70 giorni (aumentabili dalla Camera di altri 15). Vari detrattori della riforma hanno richiamato l’attenzione sugli effetti distorsivi di tale possibilità che darebbe al Governo troppo potere e troppa influenza sul Parlamento. La tesi è plausibile, ma non mi persuade: uno strumento analogo, oggi, già c’è. Si tratta della questione di fiducia, contenuta nei regolamenti parlamentari, la quale sì, è davvero deleteria per la qualità della nostra democrazia. Nata come strumento per ricompattare la maggioranza, è evoluta fino ad essere né più né meno una sciabola che consente al Governo di troncare il dibattito. Tanto che non piace all’opposizione, qualunque essa sia, ma nemmeno alla maggioranza che viene messa davanti alla scelta traumatica di approvare la legge o dover scegliere un nuovo Governo, con le dinamiche ben note che questo comporta. Oltretutto la questione di fiducia ha una influenza molto negativa nella comprensibilità delle leggi, per un motivo tecnico: dato che la Costituzione impone di votare la legge articolo per articolo e poi con votazione finale, per eludere tale onere il Governo è solito presentare, ad un certo punto della discussione, un emendamento sostitutivo dell’intera legge che la riproduce in un singolo articolo (il cosiddetto maxi-emendamento). In questo modo ottiene il massimo ottenibile, ferma il dibattito e con un sol voto porta a casa la legge. Ma il prodotto legislativo sarà quasi illeggibile al cittadino comune, perché tutti gli articoli saranno stati eliminati, i titoli che li ordinano e li spiegano cancellati, e tutta la legge sarà concentrata in un articolone gigante. Così sono state prodotte ed approvate le ultime leggi di stabilità.

    Le critiche valide secondo me sono altre: innanzi tutto che questa esigenza di ordinare e gestire una maggioranza parlamentare potrebbe essere raggiunta con un utilizzo più accorto dei regolamenti parlamentari. Il regolamento della camera, ad esempio prevede che il Governo, quando elabora il programma economico, possa indicare quali disegni di legge “collegare” alla manovra (sono appunto i famigerati “collegati”, famoso è stato il collegato lavoro del 2010, l’ultimo in ordine di tempo, mi risulta, il collegato ambiente). Di quelle proposte il governo, già oggi può «richiedere che la Camera deliberi entro un determinato termine» con la sola condizione che sia accettato dalla Assemblea a maggioranza. Non mi sembra impossibile da ottenere se il Governo è retto da un serio accordo politico.
    Inoltre, altra critica, è l’indeterminatezza (anche qui) dei casi nei quali il procedimento può essere utilizzato: un «disegno di legge essenziale per l’attuazione del programma di governo». Dunque non solo qualcosa che sia nel programma, ma addirittura che sia essenziale. E cosa significhi ciò sembra rimanere nel completo arbitrio del Governo: si pensi che l’Italia è stato il paese nel quale, nel dibattito parlamentare su un tema epocale come quello delle Unioni civili, siamo passati nel giro di 24 ore, dalla libertà di coscienza per i parlamentari, alla questione di fiducia.
    Dunque, nel complesso, non sembra di essere davanti ad un grimaldello in mano al Governo per scalzare la democrazia parlamentare. A patto, s’intende, di abolire poi la possibilità di porre la questione di fiducia.

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  4. Infine, i decreti-legge, la cui funzione di provvedimento di urgenza abbiamo già spiegato. Questi saranno possibili anche nel nuovo sistema ma saranno “sdoppiati” così come è sdoppiato il procedimento in ordinario (monocamerale) e bicamerale. Se la materia trattata dal Decreto sarà compresa in quelle per le quali è previsto un ruolo paritario del Senato, esso sarà mantenuto. Dunque non cambierà nulla rispetto al sistema attuale. In tutti gli atri casi, presentato il disegno alla Camera, decorreranno due termini: 40 giorni per la Camera per approvare il decreto e 30 per il Senato per decidere se discuterlo. La regola però sembra poco funzionale: se il Senato lascia spirare il termine, e perde la possibilità di esaminarlo, e tra quel momento e l’approvazione, la Camera modifica il decreto rendendolo inaccettabile per i rappresentanti regionali, questi sono comunque tagliati fuori. Sarebbe stato più ragionevole avere almeno due termini uguali data la già sostanziale debolezza del Senato. La speranza di molti, proponenti e studiosi che hanno elaborato la proposta, è che con l’utilizzo del “voto a data certa”, poco sopra descritto, diminuisca drasticamente l’uso della decretazione d’urgenza che ha il subdolo effetto di mettere il Parlamento davanti al fatto compiuto di norme già in vigore e quindi rapporti giuridici già prodotti. La modifica dei decreti, infatti, crea un’instabilità normativa inaccettabile in un Paese che ha bisogno di stabilità. Inoltre, negli ultimi anni stiamo assistendo, imponenti, ad uno sbilanciamento della potestà normativa verso il governo. Questo grafico riassume come il vero produttore delle norme sia oramai da 20 anni il Governo (area blu) mentre il Parlamento (arancione) è, a parte la ripresa dell’ultimo anno, relegato ad una marginalità che è esattamente l’opposto del principio di rappresentanza parlamentare che regge la nostra Costituzione.

 

Questi dati sono una mia semplificazione di dati ufficiali: il blu la somma di tutti gli atti governativi (decreti-legge, decreti delegati, decreti di delegificazione) e di una quota di atti che sono formalmente parlamentari, leggi ma nella sostanza sono atti governativi perché sono leggi di ratifica di trattati internazionali o, appunto leggi di conversione di Decreti-legge (cioè di loro approvazione). I decreti-legge oramai sono stabilmente nella media degli ultimi 20 anni, circa il 15% del totale degli atti normativi e altrettante le leggi di conversione. Per i dati completi cliccare qui.

Personalmente non credo che le speranze siano ben riposte: la storia della produzione normativa dimostra che questa centralità del Governo si è imposta ad istituzioni invariate. Ciò che è fondamentale a mio avviso è la forza dei partiti. Se questi sono reali, ed hanno strutture, capacità e rappresentanza, questi dirigono la partita. Altrimenti è il Governo che occupa quegli spazi che altri lasciano vuoti.

In conclusione possiamo affermare che se l’obiettivo era quello di semplificare il sistema, è stato raggiunto il risultato opposto. L’unico procedimento legislativo attualmente vigente, semplice, ma a torto considerato farraginoso, sarà sostituito da 5 procedimenti diversi. Anche il decreto-legge è raddoppiato.

Onestà intellettuale poi deve far riconoscere che l’attuale procedimento vigente è già semplice: semmai non è celere, visto che offre tempi e modi di riflessione, necessari quando si fa una cosa importante quali le leggi dello Stato. Celerità, che già a Costituzione e regolamenti parlamentari vigenti, come abbiamo visto potrebbe essere raggiunta quanto necessario.

L’unico argomento a favore, dunque, è che nella maggioranza dei casi il gioco politico lo conduca la Camera dei deputati cioè che, in concreto, il Senato non serva a nulla. Tanto sarebbe valso, quindi, eliminarlo completamente.

Si dimentica poi, o si fa finta di non capire, che i problemi dell’Italia, non sono istituzionali, ma politici. Se abbiamo maggioranze parlamentari non coese, è per il fatto che abbiamo partiti che non riescono a fare coalizioni coerenti con loro stesse: se si continua a presentarsi alle elezioni con grandi assembramenti sfilacciati, magari formati un minuto prima del voto, sarà inutile avere una camera invece di due. Nell’assemblea residua si riprodurranno i medesimi problemi che prima erano in entrambe.

La lotta alla burocrazia, poi, tema caro al Presidente del Consiglio, e attività meritevole quando si combatte contro l’eccesso di burocrazia, non c’entra nulla con queste riforme. Tutto l’apparato amministrativo rimarrà uguale. Questa riforma cambia solo, come abbiamo visto, il modo di fare le leggi. E questo nuovo modo prevede procedimenti diversi a seconda della materia. Sia chiaro al cittadino che andrà a votare che se il Parlamento sbaglia procedimento la norma che sarà prodotta sarà incostituzionale e sarà eliminata dalla Corte((Ciò era anche stato precisamente specificato dalla Commissione dei saggi (quella di Napolitano) che, infatti, apriva il Cap. II con queste parole: «Nella disciplina del procedimento legislativo la Commissione non ha adottato il criterio della ripartizione per materie tra Camera e Senato, che avrebbe dato adito a incertezze e conflitti, in contrasto con i criteri di semplicità, rapidità e immediatezza di comprensione che la Commissione ha inteso seguire»)).

L’unico rimedio previsto dalla riforma è che, in caso di disaccordo tra le Camere sul procedimento da seguire, i relativi Presidenti debbano mettersi d’accordo tra loro. Ma la soluzione è insufficiente: perché l’accordo, anche se trovato, non vincolerebbe nessuno se non le camere stesse mentre ogni cittadino potrebbe arrivare alla Corte costituzionale e far annullare la legge in un secondo momento.

Sono palesi quindi i limiti di questa parte del progetto di riforma della Costituzione. Un’inutile complicazione dei procedimenti legislativi che non si vede quale utilità pratica potrebbe portare mentre chiari sono i rischi di contenzioso. La pretesa rappresentanza delle istanze regionali al Senato è poco più di una formalità. Sul progetto poi aleggia l’incognita di una legge elettorale che, per mesi, è stato detto fosse l’unica speranza di dare un Governo all’Italia e che adesso, a trionfo dell’incertezza, si dice già di voler cambiare.


Per approfondire, gli altri articoli del nostro “speciale referendum”:

1. Il bicameralismo perfetto non è il problema. In difesa del Senato elettivo. senza particolare passione, ma rigettando le menzogne.

3. L’origine antica di una riforma poco moderna.

4. Elezione, funzioni ed organizzazione del nuovo Senato. Va’ dove ti porta il vento.

5. CNEL, Presidente della Repubblica, Corte costituzionale e parità di genere.

6. Che fine fanno le regioni? Il nuovissimo Titolo V fa marcia indietro sul federalismo.

7. Le lezioni da trarre dai numeri del referendum.