di Marco Ottanelli
Nella ciclica settimana di sproloquio anti-istituzionale del Presidente del Consiglio, un gioco al ribasso nel quale purtroppo, cascano tutti, Berlusconi ha in particolare manifestato (ancora) la sua irritazione verso la Corte costituzionale che, secondo lui, si fa strumento dei PM di una certa corrente della magistratura, che da essa si fanno abrogare alcune leggi.
Non perderemo tempo nello spiegare la totale scelleratezza di questa interpretazione delle cose, ché si commenta da sola. Però tutto questo ci da lo spunto per ricordare un po’ le fasi della nascita della Corte costituzionale, il relativo dibattito in Costituente, e per significarne l’importanza attraverso un paio di esempi-chiave del passato.
Autonomia e controllo.
Che il regime democristiano fosse allergico ad ogni sorta di autonomia dell’apparato giudiziario e di garanzia, e che temesse di perdere il controllo su tutto quello che la Costituzione affermava dover essere indipendente, è cosa nota, e testimoniata dagli ingiustificabili ritardi con i quali si passò dalla teoria alla pratica rispetto alla creazione di molti, troppi istituti di primaria importanza. Per il Consiglio Superiore della Magistratura, l’ organo di “autogoverno” dei giudici, si dovette aspettare il marzo del 1958, quindi per dieci anni i magistrati non furono tutelati completamente (e non furono neanche sanzionati quando sbagliavano!) dalla istituzione preposta: decideva tutto il Ministro di Grazia e Giustizia, cioè il Governo, e l’indipendenza della Magistratura fu negata di fatto per tutto quel lungo e delicatissimo periodo di transizione dal “fascismo che fu” alla “democrazia che doveva essere”.
E fu solo nel 1955 che la Corte Costituzione venne istituita per legge, e solo un anno dopo cominciò ad operare fattivamente. Il 23 aprile 1956, infatti, si tenne la prima udienza pubblica, durante la quale si discusse la costituzionalità di una norma della vecchia legge di pubblica sicurezza del 1931, che richiedeva un’autorizzazione di polizia per distribuire volantini o affiggere manifesti, e puniva la distribuzione o affissione non autorizzate.
Dal 1948 al 1956, quindi, non solo la Consulta non operò, non esercitò il suo sostanziale controllo di legittimità sulle leggi allora in vigore, e quindi neanche sull’operato di un paio di legislature, ma, non potendo né la Magistratura, né il Parlamento, né il Presidente della Repubblica poter eleggere o nominare i cinque giudici spettanti ad ognuno di questi poteri e organi dello Stato, essi furono menomati delle loro prerogative. Ancora una volta, il massimo controllo rimase nelle mani del Governo e della sua maggioranza.
La Corte costituzionale. Articoli 134-137
La Corte costituzionale è un’istituzione innovativa e decisiva sia per il rispetto della Carta Fondamentale, sia per la democrazia sostanziale della Repubblica Italiana. Essa ha l’ultima e definitiva parola sulla conformità delle leggi con il testo e lo spirito della Costituzione, e quindi ha, diremmo in parole semplici, il ruolo di giudice sull’operato dello stesso Parlamento, il quale potrebbe (come molte volte ha fatto) approvare leggi che, per distrazione, per un errore, per superficialità ma talvolta per intenzione, violerebbero uno dei principi o una delle regole fissate nel 1948.
La Corte è composta da quindici membri, scelti tra i maggiori esperti di diritto del Paese, e, se una sua sentenza riconosce una legge come “incostituzionale”, essa viene immediatamente cancellata dall’ordinamento.
Non tutti, in realtà, gradirono la creazione della Corte: certi partiti avrebbero voluto un Parlamento ed un governo molto forti, le cui decisioni, legittimate dal voto popolare, si presumevano intoccabili (anche il potere di rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica era stato, inizialmente, inteso ad impedire che il Parlamento si esprimesse contro il generale programma del Governo. Cfr qui)
La contrapposizione in Costituente fu durissima, e produsse spaccature tra e dentro i partiti.
I comunisti si opposero: Togliatti in un suo famoso intervento del 1947, fu addirittura sprezzante: “Tutte queste norme [relative alla istituzione della Corte] sono state ispirate dal timore: si teme che domani vi possa essere una maggioranza, che sia espressione libera e diretta di quelle classi lavoratrici, le quali vogliono profondamente innovare la struttura politica, economica, sociale del Paese; e per questa eventualità si vogliono prendere garanzie, si vogliono mettere delle remore: di qui la pesantezza e lentezza nella elaborazione legislativa, e tutto il resto; e di qui anche quella bizzarria della Corte costituzionale, organo che non si sa che cosa sia e grazie alla istituzione del quale degli illustri cittadini verrebbero ad essere collocati al di sopra di tutte le Assemblee e di tutto il sistema del Parlamento e della democrazia, per esserne i giudici. Ma chi sono costoro? Da che parte trarrebbero essi il loro potere se il popolo non è chiamato a sceglierli? Tutto questo, ripeto, è dettato da quel timore che ho detto. ”
Era la teorizzazione, mai abbandonata dai comunisti e dai post-comunisti, del “primato della politica”, cioè dell’assolutismo dell’investimento del voto popolare e di tutte le sue suggestioni relative. Sembrano, quelle di ben 63 anni fa, le esatte parole di Berlusconi oggi.
Il vecchio e prestigioso liberale Nitti, che raccoglieva i dubbi e le resistenze di tanta parte della destra conservatrice, si chiese, a proposito della Corte, quale senso mai avesse: “non senza meraviglia, come ho detto, ho trovato la proposta della creazione d’una Corte costituzionale. In passato, non mi risulta che ci sia stata mai la preoccupazione della istituzione d’una Corte costituzionale. Come è nato questo fungo? Dove esiste una Corte costituzionale, come quella che è stata ideata per l’Italia? Si confonde forse con la Corte suprema degli Stati Uniti d’America, con il Tribunale di Lipsia, col Tribunale svizzero di Losanna? E che cosa hanno di comune queste modeste e semplici e normali istituzioni con la strana creazione che si vuole adottare? Una Corte suprema come quella di cui si parla in questa Costituzione io non l’ho veduta mai, in nessuno dei paesi in cui ho vissuto, in cui ho viaggiato.”
Il socialista Presti dichiarò che “la Corte costituzionale rappresenta un pericoloso appesantimento della nostra Costituzione”.
Più sfumate, ma non meno critiche, le questioni poste da molti democristiani.
Insomma, la questione ideale e giuridica che si aprì impegnò a fondo tutti i costituenti, vertendo sul principio del tutto nuovo di controllo ex post delle leggi, leggi che si volevano emanate in nome, per conto ed in rappresentanza del Popolo Sovrano.
La battaglia assembleare e dottrinale venne condotta con coraggio, perseveranza, determinazione e lungimiranza dai due relatori del progetto, Giovanni Leone, DC, e Pietro Calamandrei, PdA, che riuscirono a far approvare, anche attraverso una accesa dialettica tra loro, e non senza personali cambiamenti di idea su alcuni aspetti del progetto, il testo finale degli articoli 134-137.
Gli articoli così come li conosciamo oggi furono elaborati con l’aiuto sostanziale di molti illustrissimi costituenti, quali il presidente della Commissione dei 75, Meuccio Ruini, il democristiano Mortati, il socialista Paolo Rossi, il socialista Targetti, il comunista Gullo, il qualunquista Gaetano… Ognuno di loro, assieme sicuramente a molti altri, lentamente convincendosi della utilità e necessità di una Corte costituzionale, contribuì, con interventi di alto spessore politico e giuridico, e con una serie di emendamenti e correzioni al testo base, alla nascita di questo essenziale istituto democratico.
Probabilmente utilissime furono le parole di La Pira, esponente spesso in dissenso con il suo gruppo, la DC:
“se esiste una norma base, quale è la Costituzione, e se questa è suscettiva di violazione, deve esistere una funzione giurisdizionale e un organo appropriato che questa funzione eserciti. Per coronare l’edificio costituzionale, come si corona un edificio con un tetto o una volta, ci vuole per forza una Corte costituzionale. Se c’è questa giurisdizione speciale, ci deve essere un organo particolare… Quindi per queste ragioni, data cioè l’essenza e la finalità giuridica della Costituzione rigida, l’esistenza di una Corte costituzionale è indispensabile.”
L’opposizione alla Corte costituzionale è proseguita per tutto il primo decennio della Repubblica, come abbiamo già accennato, ma da quando è in attività (1955), la sua azione è stata efficace quale strumento necessario, fondamentale per la legalità e, lo ripetiamo, la tutela della democrazia.
La Corte non può giudicare una legge di sua iniziativa. Quel che accade è questo: un cittadino viene portato a processo secondo una certa legge, perché l’ha violata. Ma durante lo stesso processo, una qualunque delle parti (di solito la difesa, ma anche il pubblico ministero, cioè l’accusa, o i giudici che devono emettere la sentenza) può “sollevare la questione di incostituzionalità”, cioè può chiedere di verificare se la legge che è alla base di quel processo sia del tutto conforme alla Costituzione. Se il giudice ha anche solo un piccolo dubbio che essa possa essere effettivamente incostituzionale, manda il caso alla Corte, che si attiva, esamina la legge, ed emana una sentenza. Se la legge viene dichiarata incostituzionale sarà immediatamente annullata e il giudice che ha sollevato il caso deciderà come se quella legge non ci fosse mai stata (ad esempio assolvendo l’imputato accusato di un reato).
La prima sentenza della Corte costituzionale
La Corte costituzionale si insediò ufficialmente, con il giuramento dei suoi membri, il 15 dicembre 1955. Dopo solo dodici giorni, il 27 dicembre dello stesso anno, giunse alla Corte la prima richiesta di pronuncia. Tale richiesta, così immediata, proveniva dalla pretura di Prato.
Il pretore di Prato doveva giudicare due imputati, Enzo Catani e Sergio Masi, accusati di aver violato una legge del codice penale fascista del 1931, l’art. 113 del testo unico di pubblica sicurezza. Cosa avevano fatto questi due ragazzi di poco più di vent’anni per meritarsi di essere trascinati in tribunale? Catani aveva distribuito dei volantini, a Prato, per pubblicizzare una festa da ballo organizzata da un circolo sindacale; Masi, che era un venditore ambulante, aveva usato un altoparlante per pubblicizzare la sua merce per le vie della stessa città! Ma a quei tempi, questi atti erano considerati reati.
Catani e Masi erano stati fermati e tradotti al carcere.
Il pretore che doveva esaminare il loro caso, però, ritenne fondate le perplessità sollevate dalla difesa, e decise, con un suo provvedimento, di richiedere un parere alla Corte appena nata.
Non si trattava solo di due casi di libertà personale, la cui violazione sarebbe già stata grave, ma anche del più generale e complessivo principio di libertà di parola e di espressione.
A seguito dell’iniziativa del pretore di Prato, anche da altri tribunali, nelle settimane successive, arrivarono istanze simili, per il totale di una trentina.
La prima storica sentenza che ne seguì investì aspetti, ed affermò principi e dottrine, ben al di là del caso specifici. La Corte, infatti, dovette anzitutto decidere sul punto, molto discusso, se la sua competenza a controllare la costituzionalità delle leggi si estendesse anche alle leggi emanate prima della Costituzione (come appunto la legge di pubblica sicurezza del 1931). Nulla, in questo campo, era stato esplicitamente scritto, e nulla era dato per scontato.
Anzi, l’avvocatura dello Stato, in rappresentanza della Presidenza del Consiglio, della quale portava le opinioni, affermava che l’azione della Corte non potesse estendersi alla normativa pre-costituzionale, quindi non potesse in alcun modo giudicare le leggi fasciste. In logico parallelo, sosteneva che la questione di illegittimità sollevata dal pretore di Prato riguardo alla legge di pubblica sicurezza dovesse essere respinta.
Contro questa impostazione restrittiva, si mobilitarono alcune delle menti più prestigiose dell’epoca, e presero la parola come avvocati degli imputati e a sostegno della pretura toscana giuristi del calibro di Vezio Crisafulli, Giuliano Vassalli nonché gli stessi ex costituenti Costantino Mortati e Pietro Calamandrei.
La questione, come si capisce, era dirimente.
Il 5 giugno 1956, la Corte affermò che tutte le leggi, anteriori o posteriori alla Costituzione, potevano essere controllate e dovevano essere annullate se contrastanti con la Costituzione. Recita la sentenza: “L’assunto che il nuovo istituto della “illegittimità costituzionale” si riferisca solo alle leggi posteriori alla Costituzione (e non anche a quelle anteriori) non può essere accolto, sia perché, dal lato testuale, tanto l’art. 134 della Costituzione quanto l’art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, parlano di questioni di legittimità costituzionale delle leggi, senza fare alcuna distinzione, sia perché, dal lato logico, è innegabile che il rapporto tra leggi ordinarie e leggi costituzionali e il grado che ad esse rispettivamente spetta nella gerarchia delle fonti non mutano affatto, siano le leggi ordinarie anteriori, siano posteriori a quelle costituzionali. Tanto nell’uno quanto nell’altro caso la legge costituzionale, per la sua intrinseca natura nel sistema di Costituzione rigida, deve prevalere sulla legge ordinaria.”
La portata di questa decisione fu enorme, e prosegue tutt’oggi.
La norma della legge di pubblica sicurezza che era stata impugnata fu così dichiarata incostituzionale. I poveri Catani e Masi, furono immediatamente prosciolti, e ugualmente si risolsero tutti gli altri casi giunti dalle diverse sedi giudiziarie.
Innumerevoli sentenze successive hanno “bonificato” l’ordinamento da molte norme delle vecchie leggi non in armonia con la nuova Costituzione, nei campi in cui l’intervento innovatore del Parlamento nel tempo è mancato, ha tardato o è stato inadeguato.
Rimane quindi nella storia quel pretore di Prato, così dinamico, così attento ai diritti costituzionali, così pronto a usare e difendere tutte le prerogative della Costituzione, che non esitò a muoversi nel periodo natalizio, sfidando orari, ferie, riti e consuetudini di uffici e tribunali. Il suo nome era Antonino Caponnetto.
Un altro esempio in breve: lo sciopero.
Anche il diritto allo sciopero, ha una sua interessante storia relativa alla Corte. . Esso, come è noto, è garantito dall’art. 40 Cost. che lapidariamente recita: “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”.
Lo sciopero, entrando in Costituzione, diventa quindi non più solo un lecito ma generico mezzo di pressione dei lavoratori, bensì uno specifico diritto, uno dei principi garantiti universalmente che comprende in esso anche il diritto di espressione, il diritto di esercitare la propria personalità nel proprio ambito sociale, e il diritto alla lotta per i diritti, ovviamente pacifica, quando necessaria.
È importante sottolineare come lo sciopero rimanesse un reato fino al 1960, nonostante l’art. 40 della Costituzione! Ci vollero ben dodici anni, in quella Italia che oggi tanti rimpiangono come migliore di questo “regime”, prima che la Corte costituzionale potesse (volesse) dichiarare incostituzionale una legge, anche essa parte del codice fascista, che, appunto, vietava e condannava l’astensione organizzata dal lavoro.
Non sempre tale legge era applicata, ma nei momenti più duri delle lotte degli operai, dei braccianti e dei lavoratori in genere, industriali e proprietari potevano sempre chiedere, a buon diritto, l’intervento repressivo delle forze dell’ordine, che, in particolare negli anni ’50, avvenne spesso con inusitata durezza.
Fu in base ad un invio davanti alla Corte da parte del Tribunale di Pisa che si venne ad analizzare la questione di legittimità dell’allora art. 502 del codice penale.
In realtà, ed è questo l’interesse dottrinale della vicenda, da Pisa si chiedeva un pronunciamento sul diritto o meno di “serrata”, che era condannata penalmente nel comma 1 del detto articolo. Fu la Corte stessa, nel dichiarare comunque incostituzionale tale comma sulla serrata, di sua iniziativa, e quindi con una concezione estensiva del suo ruolo di tutela democratica, ritenne indissolubilmente legato al corpo della vicenda anche il comma 2, quello appunto che si riferiva al divieto di sciopero, dichiarando incostituzionale anch’esso, con la sentenza del 28 aprile 1960.
Una funzione determinante.
È affascinante seguire passo passo la storia delle sentenze della Consulta. Esse, che son pur sempre prodotto di uomini, sensibili ai costumi e ai climi sociali in cui vivono, sono spesso lo specchio dei tempi in cui furono emesse. Non per nulla si parla di evoluzione e di sviluppo della dottrina, in questo senso, e non per nulla spesso in periodi diversi, sono seguite decisioni diverse. Ad esempio, nel moralista anno del Signore 1958, la Corte rigettò la questione di incostituzionalità riguardo il reato di adulterio (ricordiamo che era reato solo per le donne, non per gli uomini), mentre la accolse dieci anni dopo, nel clima decisamente più liberale dell’esplosivo ’68.
E’ quindi, la Corte, non un mero strumento burocratico, o, come dice Berlusconi, un mezzo in mano ai cattivi PM per buttare alle ortiche i suoi “lodi”: dopo più di cinquanta anni, è una parte integrante e integrata della nostra vita di cittadini, dove esercita una funzione determinante, non sempre perfetta, non esente da critiche, ma di grande portata politica e sociale.