di Gabriele Pazzaglia
Il 15 gennaio 2013 sono uscite le motivazioni della sentenza n. 1 del 2013 della Corte costituzionale che, accogliendo il ricorso di Napolitano, ha imposto la distruzione delle 4 telefonate intercorse tra il Presidente della Repubblica e Nicola Mancino (ex senatore ed ex Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura) coinvolto, quest’ultimo, nell’inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia. Prima di parlare del merito della sentenza, è bene precisare che una generica invocazione del termine trattativa è probabilmente forviante perché una trattativa dovrebbe consistere nella ricerca di un accordo. Invece il reato contestato dalla Procura è il 338 del codice penale, quello, cioè, che punisce (fino a 15 anni, date le
aggravanti) chiunque influenzi con «violenza o minaccia» l’attività di un Corpo politico, amministrativo o giudiziario. Violenza e minaccia: in una parola, qualcosa di simile ad un’estorsione cioè un comportamento che vede un colpevole da una parte e una vittima dall’altra, e non due soggetti che si mettono d’accordo su un piano di parità. Inoltre Mancino, è utile precisarlo, risulta imputato “solo” per falsa testimonianza. Certo, non è una bella cosa, soprattutto dato il suo passato istituzionale, ma non ha la stessa gravità di chi ha commesso un’estorsione nei confronti delle istituzioni della Repubblica. Di più: Ingroia, uno dei PM titolari dell’inchiesta, ha reso noto che queste intercettazioni sono state disposte prima che l’ex senatore fosse indagato, accusa che è stata formula solo in un secondo momento.
La Corte e il suo compito
Detto questo, la Corte costituzionale, quale giudice competente a decidere i conflitti di attribuzione tra poteri (decide cioè, quale istituzione deve fare cosa), è stata chiamata a decidere se le registrazioni del Presidente della Repubblica, incappato nelle intercettazioni alle quali era sottoposto Mancino, dovessero essere valutate secondo la procedura standard, un’udienza, cioè, alla quale davanti al giudice possono partecipare anche gli altri imputati e i loro avvocati, con il rischio quindi di una diffusione delle registrazioni, o se invece i pubblici ministeri dovessero semplicemente inviarle al giudice affinché, applicando un procedimento “speciale”((Tecnicamente con l’applicazione dell’art. 271 del codice di procedura penale)) senza altre persone presenti, valuti se sono da distruggere immediatamente. Questo è quello che chiedeva Napolitano e gli è stata riconosciuta la ragione.
Quando fu resa nota la decisione, lo scorso 4 dicembre, provocò reazioni poco razionali. Pochi giorni dopo, infatti, fu convocata una manifestazione dal movimento delle agende rosse, del titolo “Contro una sentenza in-consulta. Noi sappiamo”. Ci sarebbe stato da chiedere agli intervenuti, autodefinitisi quelli che sapevano, che cosa ne sapessero dei motivi per cui erano lì e cosa contestavano se non erano ancora state scritte le motivazioni. Naturalmente, le sentenze della Consulta possono non essere condivisibili, ma non ha senso strillare per una decisione in quanto tale. La sentenza infatti è motivata proprio perché questa sia esaminata: bisogna conoscere il ragionamento che sta alla base dell’interpretazione della legge (e quindi dell’attribuzione delle competenze ai vari poteri dello Stato) ed indiv iduare, se ci sono, i punti di fragilità o perché essa parte da presupposti sbagliati o perché, magari, si sviluppa in modo illogico o contraddittorio. E se si riconosce comunque corretta la decisione, la critica può spostarsi sulle norme, perché in un sistema in cui i poteri sono divisi, ogni giudice “è soggetto soltanto alla legge” che esso, sì, deve applicare, ma che altri hanno creata.
Inoltre, l’allora magistrato della procura di Palermo, Ingroia, oggi candidato, definì la decisione “una sentenza politica”. Questa è un’affermazione errata a prescindere: infatti, premesso che qualunque fosse stata la decisione questa non avrebbe potuto influenzare sull’indagine in corso visto che Napolitano non è indagato e le intercettazioni, sin dal principio, sono state valutate irrilevanti, a parte questo, le sentenze della Corte costituzionale, sono sempre un po’politiche. E deve essere così! Questa, infatti, è un giudice speciale, speciale, cioè, rispetto alla magistratura ordinaria, ed ha, rispetto a questa, sia una diversa composizione((I 15 giudici non hanno vinto un concorso ma sono eletti da altri poteri dello stato, 5 dal Parlamento, 5 dal Presidente della Repubblica e 5 dal vertice della magistratura (suddivisi tra Corte di Cassazione, Corte dei Conti e Consiglio di Stato)) sia un diverso fine: non la mera applicazione delle regole, ma attraverso esse, la garanzia dell’equilibrio tra poteri. Questo è uno dei motivi per cui l’Assemblea costituente ha creato questo nuovo organo per annullare le leggi contrarie alla Costituzione e non ha, invece, affidato il compito alla Cassazione (nonostante fossero venute proposte in tal senso, come quella di Vittorio Emanuele Orlando, del Partito Liberale).
La motivazione della sentenza
Napolitano, abbiamo detto, ha chiesto la distruzione delle sue intercettazioni alla Procura di Palermo la quale invece sosteneva che dovessero essere messe a disposizione anche delle altre parti. Paradossalmente, però, questo giudizio è stato possibile solo grazie alla poca discrezione della Procura di Palermo. Infatti il PM Di Matteo, in un’intervista a Repubblica del 22 giugno 2012 ha anticipato in modo un po’ambiguo, che le conversazioni intercettate alle quali ha partecipato Presidente «che dovranno essere distrutte…saranno distrutte, quelle che riguardano altri fatti da sviluppare saranno utilizzate in altri procedimenti». Dopo una richiesta di chiarimento di Napolitano ha precisato che non era prevista alcuna utilizzazione ma solo “la distruzione da effettuare con l’osservanza delle formalità di legge”, cioè con una udienza in cui sarebbero state messe a conoscenza degli imputati e dei loro avvocati (e quindi di chiunque!). Dunque se la Procura non avesse reso noto di essere in possesso di tali intercettazioni, questa sarebbe stata la procedura che sarebbe stata seguita e il Capo dello Stato sarebbe stato messo davanti al fatto compiuto della loro diffusione. Strana mossa calcolata o eccessiva mediaticità della funzione giudiziaria?
Comunque sia, l’argomento centrale nel ricorso del Presidente della Repubblica è che in base ad una legge del 1989((Legge 5 giugno 1989, n. 219)), esso non sia intercettabile, tranne poche eccezioni. Per capire ciò è bene fare un passo indietro e precisare che (in base all’art 90 della Costituzione) il Capo dello Stato “non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”. E per questi due reati non è competente la magistratura ordinaria (come per gli altri cittadini) ma, dopo l’accusa da parte delle Camere riunite, il giudizio è emanato dalla Corte costituzionale((È questo il procedimento per far valere la responsabilità del Presidente, procedimento che molti, sbagliando, chiamano impeachment confondendolo con la procedura prevista negli Stati Uniti. I due istituti sono differenti perché, mentre quello statunitense è solamente un giudizio politico che può determinare al più la destituzione del Presidente (che sarà poi giudicato, se del caso, dalla magistratura ordinaria), il nostro, invece è un giudizio penale vero e proprio (dal quale potrebbe quindi derivarne il carcere). Da questa differenza ne consegue un’altra, fondamentale, quanto al procedimento: l’impeachment negli USA è proposto da una camera e votato dall’altra mentre in Italia il Parlamento (in seduta comune) vota solo la messa in stato d’accusa: il giudizio, poi, è emanato dalla Corte costituzionale.)). La stessa può sospenderlo dalla carica, sospensione che, in base alla legge in questione, è necessaria affinché il Presidente sia intercettabile: prima, semplicemente non è possibile, neanche se è stato, in ipotesi, già accusato dal Parlamento. E allora, dice Napolitano, dato che la legge tutela l’immunità costituzionale del Presidente il divieto espresso per le intercettazioni dirette vale anche per quelle indirette (cioè, come nel caso in discussione, quelle registrate casualmente, quando era presa di mira un’altra persona). Dunque le intercettazioni dovrebbero essere distrutte con il procedimento speciale per non farle conoscere alle altre parti.
La Procura di Palermo si oppone a questo procedimento e sostiene, in un primo atto, che il procedimento riservato dell’art 271 del codice di procedura penale, non è applicabile perché riguarda solo le intercettazioni eseguite «fuori dai casi consentiti dalla legge». Invece in questo caso la legge lo consentirebbe perché il divieto in questione riguarderebbe solo le intercettazioni dirette e non anche quelle indirette. Questo, prosegue la procura, per due motivi: innanzi tutto perché il fatto che un soggetto intercettato parli con una persona che gode di un’immunità non è prevedibile e, quindi, neanche prevenibile. E per questo sarebbe illogico tale divieto.
In secondo luogo, visto che l’immunità presidenziale è una norma eccezionale, come tutte le norme eccezionali deve essere interpretata restrittivamente quindi il Presidente sarebbe difeso solo dalle intercettazioni dirette.
Questa seconda argomentazione della Procura, secondo noi, è un po’confusa perché mescola due temi differenti: una cosa è l’immunità dalla giurisdizione penale, altra sono i metodi di ricerca della prova: infatti la tesi della Procura avrebbe un senso se si volessero distinguere le intercettazioni in base al loro contenuto, relativo ad attività funzionali del Capo dello Stato (come la nomina di un ministro) e extrafunzionali (come un dialogo sul suo stato di salute), vietando e distruggendo le prime e utilizzando le seconde. Invece qui si discute sulle modalità (dirette o indirette) di intercettazione e la distinzione fatta dalla Procura non è quindi pertinente.
Probabilmente la stessa procura percepisce la debolezza della sua teoria tanto che, paradossalmente, finisce per depotenziare il suo stesso ragionamento affermando che la distinzione appena conclusa rileverebbe solo se si perseguisse un reato. Ma visto che non è questo il caso cerca infine di trovare un aggancio giuridico affermando che le regole applicabili varierebbero in base alla «direzione delle indagini»: e visto che le intercettazioni erano nei confronti di Mancino che, non essendo stato rieletto, è un comune cittadino, si applicano le regole generali senza che la presenza del Capo dello Stato determini alcuna eccezione((Al punto 5.4 del ritenuto in fatto.)).
La Consulta, come abbiamo già detto, ha dato ragione a Napolitano. Il nodo da sciogliere stava nell’interpretazione della legge che regola le intercettazioni al Capo dello Stato. La Corte riconosce che, come sosteneva la Procura, la norma debba essere interpretata restrittivamente, perché il divieto in questione non è altro che una deroga al principio di eguaglianza. Però, come sempre avviene, deve essere usata anche l‘interpretazione sistematica. Si deve capire, cioè, il significato di una disposizione, alla luce di tutto il sistema costituzionale. Cioè capire, nello specifico, la posizione del Presidente della Repubblica. Questo, spiega la Corte, è stato collocato dalla Costituzione «al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato per garantire la loro separazione e il loro equilibrio». Ne consegue che esso non ha il potere di adottare decisioni politiche ma solo quello di indurre gli altri poteri, che dovranno prendere le decisioni, a svolgere correttamente le proprie funzioni. Potere, quindi che consiste nella possibilità di dare impulsi ai titolari degli organi che devono assumere decisioni o, in ipotesi di blocco del sistema, «adottando provvedimenti intesi a riavviare il «normale ciclo di svolgimento delle funzioni costituzionali» (come lo scioglimento delle camere e l’indizione di nuove elezioni quando il Parlamento non riesce a dare un Governo al Paese).
Queste attività possono anche essere informali (incontri, comunicazioni…) e, si legge nella sentenza, «possono e devono essere valutate e giudicate in base ai loro risultati» e non «a seguito di estrapolazioni parziali ed indebite». Se ciò avvenisse tali «funzioni di raccordo e di persuasione», non potrebbero essere efficaci. Ne deriva un’esigenza di riservatezza che, se garantita a tutti i cittadini in base all’art. 15 della Costituzione, deve essere protetta ad un livello ancor più elevato se riferito ad istituzioni aventi interessi «costituzionalmente meritevoli di protezione».
Questo diritto alla riservatezza deve essere, però, bilanciato con la necessità che il Capo dello Stato, in quanto perseguibile per alto tradimento e attentato alla Costituzione, possa in alcuni casi essere soggetto a mezzi di ricerca della prova, come le intercettazioni telefoniche. La legge, però, prevede che, addirittura nei casi «dei più gravi delitti contro le istituzioni della Repubblica previsti dall’ordinamento costituzionale», siano vietate le intercettazioni telefoniche nei confronti del Presidente, essendo ammissibili solo dopo la sospensione dalla carica. E, dato che nel più sta il meno, ciò implica che «per tutte le altre fattispecie, non si possa ipotizzare un livello di tutela inferiore».
Se così non fosse si arriverebbe al paradosso che il Presidente della Repubblica, nonostante il procedimento speciale per far valere la sua responsabilità, sarebbe arrestabile da qualunque giudice sol perché non è espressamente previsto il divieto che invece è riferito ai Parlamentari((Che è superabile solo con il voto della Camera di appartenenza.)).
Infine la sentenza contiene un’importante precisazione: visto che la Procura aveva cercato di argomentare la sua tesi sulla base della responsabilità/irresponsabilità presidenziale, la Consulta, benché riconosca che il tema è «fuor di luogo» rispetto alla decisione, ne approfitta comunque per ribadire un principio che aveva già affermato con una sentenza del 2004 relativa a Cossiga: l’immunità del Presidente è limitata ai soli atti e fatti relativi all’esercizio delle sue funzioni (e comunque esclusa nei due reati più volte ripetuti). Non sussiste, invece, in tutti gli altri casi: il Capo dello Stato è quindi responsabile, e competente è la magistratura ordinaria. Esattamente come se fosse un cittadino comune!
Quindi, dato che la giustificazione della riservatezza del Presidente non è (quando sussiste) la sua immunità ma la necessità di proteggere le «attività informali di equilibrio e raccordo tra poteri dello Stato» il livello di tutela non si abbassa per il fatto che ad essere intercettata sia una terza persona. Quando uno di questi dialoghi avviene la tutela si sposta dal divieto di intercettare all’obbligo di distruggere l’intercettazione. Altrimenti una tutela costituzionalmente prevista sarebbe annullata da eventi casuali.
Dunque?
Detto questo è interessante chiedersi: se il Presidente dovesse comunicare con un soggetto intercettato al quale racconta di aver fatto cose inenarrabili, che si fa? Si fa finta di niente? Dipende: la Corte, infatti, chiude la sentenza con questa frase: se ciò avverrà «l’Autorità giudiziaria dovrà tenere conto della eventuale esigenza di evitare il sacrificio di interessi riferibili a principi costituzionali supremi: tutela della vita e della libertà personale e salvaguardia dell’integrità costituzionale delle istituzioni della Repubblica (art. 90 Cost.). In tali estreme ipotesi, la stessa Autorità adotterà le iniziative consentite dall’ordinamento». Che vuol dire? Che se emerge la commissione di un reato fuori dall’esercizio delle sue funzioni, l’intercettazione dovrà comunque essere mandata al macero senza che sia diffusa, e amici come prima, a meno che il reato non riguardi la vita o la libertà personale di un essere umano. In questi casi il giudice trasmetterà l’intercettazione alla procura competente che la utilizzerà come notizia di reato.
Invece, se si tratta di un reato funzionale, nel caso in cui il Presidente sia imputabile (alto tradimento e attentato alla Costituzione) il giudice dovrà informare il Parlamento. Altrimenti per tutti gli altri reati (ad esempio i reati contro la Pubblica Amministrazione), anche qui il giudice dovrà, senza diffonderle, distruggere tali intercettazioni.
La sentenza, in conclusione è, per quanto complessa, argomentata in modo, secondo noi, logico. Se non si è d’accordo con la decisione, più utile che strillare come i gruppi che sono scesi (o saliti?) in piazza prima ancora che uscissero queste motivazioni, non ha altro da fare che rimboccarsi le maniche e leggere la sentenza in modo da individuare i punti nei quali la stessa sarebbe fragile. Noi non ne abbiamo trovati ma non è detto che non esistano.
Però, invece che prendersela con la Consulta che ha fatto solo il suo lavoro, forse sarebbe più solida una critica a Napolitano: ha l’immunità, è vero, e giuridicamente la sua richiesta era fondata, tanto che ha avuto ragione. Ma esiste anche un criterio di opportunità. Che mai avrà detto di così sconveniente da non poter essere rivelato? Ferme le prerogative in questione, quando queste vengono scalfite per motivi casuali, si deve anche prendere in considerazione la necessità di mantenere l’autorevolezza della massima carica dello Stato. E difficilmente ciò avviene se si danno argomenti a chi vuole pensar male.
In ogni caso, probabilmente sarebbe ancor più utile guardare avanti e ragionare sulla legge che regola la materia, la quale può essere cambiata. C’è, manco a farlo apposta, una campagna elettorale in corso tanto scarna di contenuti quanto soffocata da slogan. E visto che il dibattito pubblico degli ultimi vent’anni è stato stordito da proposte di riforme anche costituzionali molto approssimative e raffazzonate, ecco una buona occasione per parlare di cose serie.