di Gabriele Pazzaglia
I due maggiori tiranni del mondo: il caso e il tempo.
Johann Gottfried Herder
La commedia della legge elettorale italiana giunge ad un nuovo surreale capitolo.
Riassumiamo: l’11 maggio 2017 un accordo sembrava raggiunto, o almeno raggiungibile, quando il Presidente della Commissione affari costituzionali ha depositato un proprio testo. Il Presidente, con funzioni di relatore, Mazziotti di Celso, sembrava la persona giusta: liberale, nella maggioranza ma non nel PD, è di quella parte di Scelta Civica che ha rifiutato l’accorpamento con i verdiniani, è in un piccolo partito che non è chiaro se si ricandiderà alle prossime elezioni (e non è chiaro se ancora esista). Insomma, tutte le forze politiche potevano auspicare che, essendo di fatto senza interessi personali o di appartenenza, lavorasse lealmente per una riforma per così dire super partes.
Il Presidente-relatore proponeva di prendere le regole elettorali della Camera dei deputati scaturite dalla sentenza della Corte Costituzionale dalla sentenza del febbraio 2014, e di “copiarle” per il Senato in modo da avere un sistema sicuramente conforme alla Costituzione (visto che è il risultato proprio, come detto, di un giudizio della Corte che ha annullato l’italicum) e omogeneo tra le due assemblee. Insomma, un modo pulito per concludere questa vera e propria odissea.
Sembrava possibile, fattibile, semplice. Ma il PD neorenziano ha fatto sapere di non gradire e di voler presentare un proprio testo, rapidamente ribattezzato Rosatellum (dal nome del proponente, Ettore Rosato) che invece sembra non andare bene agli altri partiti maggiormente rappresentati in Parlamento: né a Forza Italia né al Movimento 5 stelle.
Non entreremo nel merito del testo perché, come sempre in questa rivista, vogliamo parlare solo di leggi approvate e mai di estemporanee proposte [AGGIORNAMENTO: dopo questo scritto la legge rosatellum è stata effettivamente approvata, l’abbiamo analizzata in questo articolo).
Ma eccoci al surreale capitolo: la legge elettorale può essere cambiata oggi… a 9 mesi dalle elezioni? Attenzione: la risposta è no! Manca troppo poco tempo alle elezioni per cambiare (per l’ennesima volta) il sistema elettorale.
Perché mai, questo termine? Chi ha indicato un limite allo scomposto dibattito al quale gli italiani assistono (per lo più attoniti) da vari anni?
Per una volta è giusto dire: ce lo chiede l’Europa! Non l’Unione (tanto ingiustamente vituperata) ma l’altra organizzazione europea della quale facciamo parte, il Consiglio d’Europa, che ha lo scopo di tutelare i diritti umani e la qualità della democrazia dei 47 Stati membri. Le regole fondamentali sono quelle consacrate nella nota Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo((Questo patto, è un po’ la nostra Costituzione europea, perché contiene i diritti base di noi cittadini garantiti da vari Paesi dopo la 2a guerra mondiale. Le forze migliori dell’antifascismo, avevano varie anime ed il testo che risulta è il frutto di un compromesso tra esse dopo che ogni disposizione è stata discussa, precisata, limata. Perciò a volte esse stabiliscono precisi diritti, altre sono costruite come divieti, altre come impegni per lo Stato.)) tra le quali vi è l’impegno degli Stati di «organizzare, a intervalli ragionevoli, libere elezioni» di modo «da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo» (art. 3 protocollo 1).
Dunque, posto che ci devono esserci elezioni, il problema è capire come esse possano permettere in concreto «la libera espressione» del popolo. Ha dato alcune indicazioni l’organo consultivo del Consiglio d’Europa, la Commissione di Venezia: un gruppo di esperti di diritto indipendenti che deve studiare e proporre gli stumenti tecnici per rafforzare le democrazie e impedire che con escamotages esse siano aggirate.
La Commissione ha elaborato un “Codice di buona condotta in materia elettorale“: approvato nel lontano 2003, non può far sorgere dubbi di “pareri ad olorogeria”. Esso indica che «non dovrebbero poter essere modificate entro l’anno che precede le elezioni» né il sistema elettorale «propriamente detto», cioè le regole che trasformano i voti in seggi parlamentari, né «la suddivisione in seggi elettorali delle circoscrizioni». Proprio quello che i partiti italiani si (ri)propongono di cambiare per la 4a volta in venti anni e per la seconda nella stessa legislatura!
Il danno che può fare una modifica così ravvicinata alle elezioni lo spiega la stessa Commissione: la stabilità delle regole è importante per la «credibilità del processo elettorale, che è essa stessa essenziale al consolidamento della democrazia». Se si cambiano le regole spesso «l’elettore può essere disorientato e non comprenderle» arrivando a pensare che la legge elettorale sia uno strumento che «coloro che esercitano il potere manipolano in loro favore» mentre il voto «non sia quindi l’elemento che decide il risultato».
Quanti di noi hanno avuto questa sensazione in questi anni? Chi può negare che questo cambio a raffica delle regole non abbia minato la credibilità del sistema e che questi cambi, soprattutto quando arrivati a ridosso delle elezioni (come purtroppo è accaduto ciclicamente in Italia: nel 1923-4 con la “legge Acerbo”; nel 1953 con la “legge-truffa”; nel 1993-4 con la “legge Mattarella”; nel 2005-6 con la “legge Calderoli”) non siano state manovre per danneggiare l’avversario invece che per dare al Popolo italiano una genuina rappresentanza?
Il pericolo di una condanna da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo è reale e concreto. È già successo alla Bulgaria che, pochi mesi prima delle elezioni del 2005 introdusse nuovi requisiti per i partiti che si candidavano alle elezioni (qui la sentenza): l’obbligo di depositare il bilancio alla Corte dei Conti; una cauzione di circa 10mila euro, che veniva restituita solo in caso di raggiungimento dell’1% dei voti; e 5000 firme di elettori. Dunque, tutti requisiti potenzialmente superabili da qualsiasi gruppo politico organizzato, eppure la Corte, citando proprio il passo che abbiamo riportato della Commissione di Venezia, ha condannato la Bulgaria perché la modifica è intervenuta meno di un anno prima delle elezioni (parr. da 69 a 72).
Tutte modifiche, quelle bulgare, che erano molto meno radicali delle vagheggiate riforme totali del sistema italiano che vedono proporre a vanvera il sistema maggioritario, quello proporzionale, miscugli tra i due, soglie di sbarramento casuali, “blocco” dei soli capilista o di tutto il listino di candidati. Con la speranza che siano abbandonati i progetti renziani di ballottaggi e premi di maggioranza. Il problema, bellamente ignorato da tutti, è che si parla di queste scelte come se fossero tutte neutre ed intercambiabili. Invece comportano radicali cambiamenti nella strategia elettorale, pre-elettorale e post elettorale: i partiti possono allearsi, coalizzarsi (o come capita in Italia, addirittura accorparsi) o concorrere liberamente tra loro. Strategia che non hanno il diritto e il dovere di elaborare con sufficiente anticipo rispetto all’apertura delle urne. Come è possibile fare un congresso se non si sa come si vota? E questa incertezza ricadrà sugli elettori che non potranno scegliere con cognizione.
Il sistema quindi può essere cambiato, sì, ma non lo si può fare in prossimità delle elezioni. Altrimenti chi detiene momentaneamente il potere può utilizzarlo per “ritagliarsi” su misura un sistema elettorale. E basta un rapido sguardo al calendario per scoprire che, oggi fine maggio 2017, mancano 9 mesi alla fine della legislatura, non un anno.
In queste condizioni sono ovvie le ragioni di opportunità che dovrebbero portare chiunque ad auspicare di smettere di giocare al piccolo chimico con le regole delle elezioni. La cosa migliore da fare è non toccare più niente e tenere il sistema uscito dal giudizio di costituzionalità: un proporzionale (che quindi non ha problematiche distorsioni del risultato) con un modesto sbarramento. Solo alla Camera c’è un premo di maggioranza che scatterebbe nell’improbabile caso che qualcuno raggiunga il 40%.
Qualcuno ha paura del parlamentarismo, dell’inciucio, dell’ingovernabilità? Tutte frottole. Con il sistema attuale c’è un ottimo modo per riuscire a governare: vincere le elezioni, convincendo gli italiani a votare in maggioranza per un partito. Altrimenti, senza drammi, succederà quello che avviene ed è avvenuto in altre democrazie: un governo di coalizione. Dalla Gran Bretagna, patria del maggioritario, alla presidenziale Francia, alla solida Germania, tutti hanno avuto accordi politici e sono sopravvissuti. Che cosa è la democrazia, se non mettersi d’accordo?
E se queste evidenti ragioni di opportunità non bastassero a convincere i riottosi della riforma elettorale, dovremmo avere coscienza che ci sono precise regole internazionali, che l’Italia si è obbligata a rispettare in tempi non sospetti. E la loro violazione sarebbe un ulteriore smacco per l’immagine internazionale dell’Italia, già messa a dura prova Governo dopo Governo.
Ma conoscendo la nostra classe dirigente, il pericolo di un procedimento, di un giudizio, di una condanna e di una sanzione, non viene minimamente considerato come freno e limite: tanto, come già successo mille volte, a pagare saranno i cittadini.