SPECIALE REFERENDUM COSTITUZIONALE 2016/5
di Marco Ottanelli
Abolizione del CNEL
La riforma prevede la cancellazione dell’art. 99 che prevede il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. Se vince il SI, esso sparirà; se vince il NO, rimarrà in vigore secondo Costituzione e la legislazione ordinaria vigente (che potrebbe essere cambiata eventualmente in seguito).
Il CNEL è un interessante esperimento, nel costituzionalismo italiano: esso non solo rappresenta le categorie, appunto, economiche e lavorative, non solo ha il compito di esprimere pareri su leggi e proposte di legge che riguardino quei campi della vita del Paese, ed effettuare studi da fornire al parlamento, ma può anche presentare a sua volta proposte di legge al Parlamento, può quindi prendere (sempre limitatamente alle “sue” materie) l’iniziativa legislativa.
Nato da una idea del social cattolico Fanfani, che lo presentò la prima volta in Assemblea Costituente il 15 ottobre del 1946, ed inizialmente guardato con forte ostilità da liberali e comunisti (che, per motivi opposti, difendevano la centralità del parlamento da ogni possibile ingerenza e per questo erano contrari a Corte dei Conti, Corte costituzionale, referendum ed altri strumenti di garanzia), venne però individuato come potenziale leva per il mondo del lavoro dal sindacalista Di Vittorio (PCI), che ne difese le prerogative all’interno del suo gruppo. Anzi, con la forte e determinante collaborazione di Clerici (DC), di Ruini (Democrazia del Lavoro), e con il contributo di Moro (DC), praticamente scrisse l’art. costituzionale che oggi si chiede di abrogare. Il suo compito era quello di contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale.
In realtà le magnifiche sorti e progressive del Consiglio sono state disattese – si può dire completamente – dall’infelice prassi repubblicana. Esso non vide la luce prima del 1957, e nonostante il suo primo presidente sia stato il prestigiosissimo Meuccio Ruini, immediatamente il suo compito venne relegato ai margini della vita pubblica: in quaranta anni di attività ha presentato solo 97 pareri, inascoltati (quindi, perché presentarne altri?) e non più di 21 proposte di legge, nessuna delle quali è stata minimamente presa in considerazione dal Parlamento (così come le leggi di iniziativa popolare; quindi, perché presentarne altri?). Il messaggio – prima democristiano e poi di tutti i partiti assurti al potere – al CNEL fu: “non ci provate neanche”. Ma di cosa sorprendersi, in un Paese dove le annuali relazioni di organi molto più importanti come Magistratura e Corte dei Conti vengono platealmente ignorate da sempre, e dove persino i messaggi dei Presidenti della Repubblica al massimo sono oggetto di dibattito per un paio di giorni?
In conclusione, il CNEL è stata una grande occasione perduta. Avrebbe potuto essere realmente una sorta di settoriale “terza Camera” a garanzia dell’equità sociale, e avrebbe, sfruttando le sue potenzialità di competenza, essere in grado di migliorare sensibilmente la qualità della normazione economica e laburistica. Ridotto al silenzio, il CNEL ha comunque prodotto una serie di importanti ed approfonditi documenti, classificati come osservazioni e proposte, rapporti, studi ed indagini, relazioni, atti di convegni e dibattiti, documenti di alto valore scientifico ma che, probabilmente, nessun deputato ministro o senatore ha mai sentito il bisogno di leggere. Peccato. La “colpa” è della politica, dei partiti, dei governi, della palude imprenditoriale e anche dei sindacati (che non hanno in realtà mai voluto che fosse attuato un altro articolo della Costituzione, il 39)
Il nostro parere: se dovesse vincere il SI ed il CNEL sparire, nessuno si accorgerebbe della differenza, quindi nessuna tragedia. Però il risparmio così rumorosamente propagandato dal governo sarà ridottissimo((Renzi e Boschi dicono che la cancellazione del CNEL produrrà un risparmio di 20 milioni di euro all’anno. Ma la ragioneria dello Stato ha comunicato che ad oggi esso costa circa 9 milioni di euro; tenendo conto che la sua struttura rimarrà comunque attiva, il risparmio effettivo sarà attorno allo zero.)): non solo tutto il suo personale sarà dislocato presso altri enti a pari stipendio (si pensa alla Corte dei Conti), non solo la sua sede, la bella villa Lubin, dovrà essere mantenuta con tutti i costi necessari (si vocifera che passi al CSM), non solo l’azzeramento degli emolumenti dei suoi componenti è già in atto, cioè, sul serio, non li pagano già più, ma c’è la concreta possibilità che il nuovo Senato sia costretto ad inventarsi un nuovo “Consiglio dell’Economia e del Lavoro” suo proprio, per assolvere all’enorme e complesso compito di “valutazione delle politiche pubbliche” che la nuova Costituzione gli assegna. Se dovesse al contrario vincere il NO, ci auguriamo (ma ci crediamo poco) che si voglia, una buona volta, applicare la Carta vigente ed il suo spirito profondo, e fare del CNEL uno strumento utile e dotato di reali poteri, in grado di migliorare l’efficienza del nostro Stato.
Il nuovo referendum e le leggi di iniziativa popolare
Le modifiche a questo importante istituto democratico, solo parzialmente regolato dall’art. 75 cost. (che poi rimanda alla legge ordinaria), prevedono che esisteranno due modalità diverse per la validità di una consultazione referendaria: la prima, come è oggi, invariata, è che si debbano raccogliere 500.000 firme valide, e che sia raggiunto il quorum del 50% + 1 degli aventi diritto; si conteranno poi i soli voti validi, e si vedrà se vincono i sì o i no.
La seconda, la novità, è che i comitati proponenti raccolgano 800.000 firme valide. In questo secondo caso, perché la consultazione sia valida, basterà come quorum il 50%+1 dei votanti per la Camera alle ultime elezioni; si conteranno poi i soli voti validi, e si vedrà se vincono i sì o i no.
Facciamo un esempio numerico: dovessimo votare oggi per un referendum abrogativo, avremmo due ipotesi:
Con 500 mila firme | Con 800 mila firme |
Quorum (il 50% + 1 degli aventi diritto al voto che sono – circa – 50.681.772 ) | Quorum (il 50% +1 dei votanti alle ultime elezioni politiche, che sono stati 35.270.926 ) |
25.340.887 | 17.635.464 |
Vediamo dunque che, a fronte di un lavoro maggiore in fase di raccolta delle firme, il quorum è ben più facile da raggiungere. Starà ai promotori scegliere quale formula perseguire, o alla Corte di Cassazione determinarla, al momento del conteggio e verifica delle firme stesse? Questo aspetto non è chiaro, e sarà deciso al momento delle leggi attuative (il Grande Vuoto di tutta la riforma)
Il nostro parere: per vizio istituzionale, abbiamo sempre pensato che la chiarezza e la univocità siano la migliore soluzione di ogni questione costituzionale. In barba alla promessa di semplificazione, al posto di un istituto referendario, se ne introducono due in qualche modo concorrenti: non solo ogni volta ci sarà la tombola del quorum, ma già immaginiamo scontri dottrinali e politici su “il mio referendum è più valido del tuo”, a seguito di diverse consultazioni con diverse affluenze e diversi quorum e diversi risultati relativi. La soluzione trovata dal governo ci appare come un compromesso tra coloro che chiedevano di abolire o abbassare il quorum, e coloro che, stante l’aumento della popolazione, chiedevano un aumento delle firme necessarie. Tra chi pensa che sia troppo facile indire un referendum e tra chi pensa che sia troppo difficile. Insomma, una riforma che, dando ragione a tesi opposte, crea una certa confusione filosofica e rischia di crearne qualcuna pratica. Comunque, non ci pare una tragedia né se questa riforma passa, né se viene bocciata.
Per quanto riguarda le leggi di iniziativa popolare, la riforma propone un patto: a fronte di una raccolta di firme triplicata (150.000 invece che 50.000), future leggi (delle quali nulla si sa) e futuri regolamenti parlamentari (dei quali ancor meno si sa) impegnerebbero la Camera a metterle in calendario (non certo ad approvarle) in tempi certi. Questo cambiamento è un bene, o un male? Difficile dirlo. Mettere una legge in calendario (dove? In commissione, in sede referente, in sede redigente, in assemblea?) non vuol dire né discuterle, né farlo velocemente. D’altronde fino ad oggi sono praticamente zero le leggi di iniziativa popolare che siano mai state approvate, la enorme maggioranza giace in qualche cassetto ad invecchiare; qualcosa andava quindi fatta. Ovvio che per raccogliere ed autenticare 150.000 firme ci vorrà tanta mobilitazione e tanto denaro, cose che solo i partiti o le grandi organizzazioni hanno. Popolari sì, ma con l’aiutino.
Sono inoltre introdotti i referendum popolari propositivi e d’indirizzo, che, se discutibili in linea di principio (ma la nostra non era una democrazia rappresentativa? Questi nuovi istituti dovrebbero far piacere a forze politiche come il M5S, che propugna la democrazia diretta), non possono essere dibattuti nella sostanza, essendo la loro disciplina rinviata a una successiva legge d’attuazione, come in realtà mezza riforma costituzionale.
Conseguenze sul Presidente della Repubblica
La figura del Capo dello Stato non è direttamente toccata dalla riforma, ma non poche sono le conseguenze della stessa sul Quirinale.
Innanzi tutto, il suo eventuale sostituto non sarà più il presidente del Senato, ma quello della Camera; dettagli, si dirà, ma teniamo conto che quest’ultimo sarà espressione diretta di una maggioranza fortissima, senza contrappesi;
Il Presidente non avrà più il potere di sciogliere il Senato, che diventa un organo che “non muore mai”; ma il Senato avrà ancora il potere di eleggere il Presidente, rompendo un equilibrio che i Costituenti nel 1948 avevano pensato come necessario. Il Presidente in compenso potrà nominare per sette anni (la durata del suo stesso mandato) cinque senatori, cioè il 5% del totale, un peso relativo non indifferente che non potrà non avere un significato politico determinante.
Come sarà eletto il Capo dello Stato, poi? Camera + Senato in seduta comune, senza i rappresentanti regionali oggi previsti (essendo già essi i senatori futuri), e con maggioranze diverse.
Qui il discorso si basa su noiosi calcoli, ma è doveroso farli. Il quorum per l’elezione del presidente della Repubblica cambia in base al numero di votazioni. Vediamo da uno schema come è adesso e come sarà a riforma in vigore:
Sistema attuale | Riforma Renzi – Boschi | ||
n. grandi elettori (deputati + senatori+ senatori a vita + rappresentanti regioni) | 1009 | n. grandi elettori (deputati + senatori + senatori a vita) | 736 |
Dalla prima alla terza votazione: 2/3 dei membri del collegio | 672 | Dalla prima alla terza votazione: 2/3 dei membri del collegio | 490 |
Dalla quarta votazione in poi: Maggioranza assoluta del collegio | 504 | Dalla quarta alla sesta votazione: 3/5 dei membri del collegio | 441 |
Dalla settima votazione in poi: 3/5 dei votanti (esclusi quindi gli assenti e gli astenuti) | ? |
La giustificazione di questi complessi cambiamenti viene data dal presunto elevamento del quorum necessario per l’elezione, e quindi si intende che essa sarà più “larga” e rappresentativa.
Ma è pura teoria. Le prime tre votazioni saranno, per quorum, identiche a quelle attuali. Il secondo blocco, dalla quarta alla sesta, fissano effettivamente un alto livello di voti, ma ci si scorda che i Grandi Elettori altri non saranno che i deputati eletti con un sistema fortemente maggioritario (l’italicum assegna il 54% dei seggi della Camera alla lista prima classificata, gliene dà quindi 340) e che i senatori saranno eletti con un sistema tendenzialmente maggioritario di II grado dopo essere stati eletti consiglieri regionali o sindaci con altre leggi maggioritarie (quindi saranno il risultato di un premio di maggioranza di un premio di maggioranza). Con tutta evidenza, il maggior (o i maggiori) partito sarà fortemente rappresentato a scapito di tutti gli altri. Da notare anche come i consiglieri regionali ed i sindaci, con tutte le difficoltà di rappresentanza generale che dicevamo, eleggeranno, avendo ognuno il peso di 1/736, il Presidente della repubblica.
Inoltre dalla settima votazione il quorum è incerto e sarà determinato da presenti ed assenti. In un regime dove prima i 60 renziani, disubbidendo alla indicazione di partito e di maggioranza, hanno votato Chiamparino invece che Marini e dove 101 (o 110, dipende dai calcoli) esponenti dello stesso PD hanno affossato a tradimento la candidatura di Prodi, rimane un mistero la ratio di questa norma.
Il nostro parere: ricordiamo solo che la nostra Carta costituzionale è stata scritta, pensata, ideata, costruita su un sistema che prevedeva una ampia e significativa rappresentanza popolare sovrana proporzionale. Persino con le preferenze. A livello teorico, ma reale, il singolo cittadino poteva in un modo o nell’altro influire persino sulla elezione del Capo dello Stato, che, come Garante dell’Unità Nazionale, doveva raccogliere il depositato di quella proporzionalità. Tutto questo, riforma dopo riforma, dagli anni ’90 ad oggi, è sparito. E non ci piace.
Il rischio finale del nuovo sistema, quorum e legge elettorale, è che il Presidente della Repubblica non sia più un garante dell’equilibrio del sistema, terzo rispetto alle forze politiche ma un rappresentante della più forte di queste.
Elezione dei giudici della Corte costituzionale e la nuova funzione sulle leggi elettorali
Nel momento in cui la riforma spazza via molte competenze costituzionali delle Regioni, attraverso la riforma del Titolo V, essa assegna ad esse, attraverso la riforma del Senato, un peso crescente per la determinazione della Corte costituzionale.
Perché il nuovo Senato, quello fatto da consiglieri e sindaci che vanno e vengono (ancora non s’è capito bene come, mancando le leggi di attuazione) e che non rappresenteranno più i cittadini ma gli enti politico-amministrativi che li delegano, eleggerà due giudici della Corte su 15 (fino ad oggi era il Parlamento in seduta comune, espressione della sovranità popolare, ad eleggerne 5, ma con la riforma la Camera ne eleggerà a parte 3). Un bel potere, per dei consiglieri regionali selezionati in modo ipermaggioritario. E poi, questi due giudici, chi e cosa saranno? Saranno giudici regionali? Faranno gli interessi delle regioni, e se sì, di quali, dato che saranno due eletti su venti enti territoriali? E finiranno per sclerotizzare la giurisprudenza, come teme il Gruppo di Pisa, divenendo relatori fissi sulle materie che concernono appunto le regioni?
Tralasciando l’importante ma troppo complesso dibattito sul contenzioso probabile che i nuovi sei-sette procedimenti legislativi scaricheranno sulla già oberata Corte, concentriamoci sulla nuova funzione di giudizio preventivo che le è attribuita, quella che dovrà esercitare quanto un terzo dei senatori o un quarto dei deputati (un terzo, un quarto… perché?) chieda di sapere, appunto preventivamente, se le nuove leggi riguardanti le elezioni della Camera o del Senato siano costituzionali o meno. Domande sul punto: si intende che la Consulta potrà bloccare una legge elettorale? O solo rinviarla, con le dovute osservazioni, alle camere? Tale legge deve essere strettamente quella elettorale, o si intendono anche norme “vicine”, quelle che tecnicamente si chiamano leggi elettorali di contorno((Appartengono a questo gruppo le leggi sul finanziamento dei partiti; sulla par condicio; sulle incompatibilità; su molti aspetti tecnici dello svolgimento della campagna elettorale e dello spoglio delle schede, ed altre ancora.))? E chi controlla le leggi regionali che eleggono i consigli che eleggono i senatori? E poi…ma quante volte si intende riformarla, la legge elettorale, in futuro, avendo previsto una norma costituzionale ad hoc? Già l’Italia ne ha avute cinque (e senza molti vantaggi), unico tra i paesi occidentali… Ne vogliamo forse sfornare una a legislatura? E se no, a che serve questa riforma? E, per dirla fino in fondo: attribuire il potere preventivo, che è un potere enorme, solo ad una specifica e ristrettissima normazione, che senso ha?
Il nostro parere: sempre in riferimento agli equilibri basati sulla rappresentanza proporzionale con i quali sono stati ideati gli strumenti di garanzia nel 1948, questa riforma non ci sembra né utile, né pratica, né funzionale. Anzi, rischia ancora più di politicizzare, nel senso peggiore del termine, la più poderosa ed innovativa istituzione repubblicana. Per saperne un po’ di più, ecco tutti i dubbi del già citato Gruppo di Pisa.
Equilibrio tra uomini e donne nella rappresentanza. Che già esiste.
Questa riforma è stata più volte presentata come rivoluzionaria dalle donne del SI (in particolare da E. M. Boschi, che è ministra e deputata, e da D. Serracchiani, prima deputata e poi presidentessa di regione, entrambe a quel livello anche senza bisogno del cavilo). Piccolo dettaglio: la parità di genere esiste già e le nuove norme nulla aggiungeranno alle vecchie.
Vediamole nel dettaglio: lLa prima è il nuovo art. 55.2: le leggi elettorali della Camera e del Senato «promuovono l’equilibrio tra donne e uomini nella rappresentanza.» Il concetto è esteso alle regioni con l’art. 122.
Ma la Costituzione vigente già contiene le stesse norme! A livello nazionale l’art. 51 afferma che, per l’accesso alle cariche pubbliche, «la Repubblica promuove … le pari opportunità tra donne e uomini». E all’art. 117.7 lo stesso è ribadito per le regioni.
L’unica differenza sarà la sostituzione della “parità di accesso” con “l’equilibrio della rappresentanza”. Nonostante la roboante propaganda, è solo una differenza terminologica. Ma la sostanza rimarrà la stessa. E dunque il futuro parlamento potrà fare domani esattamente quello che po’ fare oggi. Anzi, che ha già fatto. Perché la parità di genere è già prevista, con recenti riforme, a tutti i livelli, comunale, regionale, nazionale ed europeo. Attraverso soprattutto la “doppia preferenza di genere”. Là dove le preferenze saranno previste se il cittadino ne esprime due, devono essere una per un uomo ed una per una donna. Insomma, anche volendolo, già non possiamo votare Boschi e Serracchiani assieme.
Il nostro parere: Più che una riforma costituzionale, ci pare una pubblicità, ai limiti dell’ingannevole, dato che ogni obiettivo preposto può essere raggiunto dalla Costituzione vigente.
Appendice:
La cessione della sovranità all’Europa: una bufalazza
Questa appendice non è su la riforma, ma sui timori immotivati scatenati da qualche propagandista armato di bannerini da spargere sul web che gridava alla colonizzazione da parte della UE.
Il tutto è dovuto al comma del nuovo art. 117 che recita: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea e dagli obblighi internazionali”
Scandalo, paure, grida all’invasione… gli allarmisti si son scordati che l’attuale art. 117, quello che resterebbe in vigore, modificato come segue nel 2001 anche con un referendum confermativo popolare, dice: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”
Dove è mai la differenza? Nel solo sostituire le parole Unione Europea a comunitario. Un mero restiling concettuale, e dato che la comunità europea non esiste più, essendosi disciolta nella Unione Europea, e dato che di quella Unione siamo parte, non solo per l’approvazione di tutti i trattati relativi, ma anche a seguito di un referendum del 1989 stravinto da coloro che si dissero favorevoli a fare della Comunità Europea una Unione vera e propria. Inoltre nel 2007 il parlamento italiano ha ratificato uno dei più importanti e recenti trattati europei, quello che viene considerato la Costituzione Europea, il Trattato di Lisbona (dopo quello di Maastricht, di Nizza e di Amsterdam), alla unanimità sia alla Camera che al Senato. Ripetiamo: alla unanimità! Nessuno, di nessun partito, ha votato contro, accettandone vantaggi, impegni e conseguenze. Gli Stati si sono dimostrati sovrani proprio “nell’attribuire alle istituzioni comunitarie la gestione di taluni interessi fino ad allora rientranti nella loro giurisdizione interna”. Essi hanno così realizzato un sistema giuridico-istituzionale comunitario vigente nell’intera Unione europea (e quindi per tutti i partners, non solo per noi), “proponendo alla ribalta un nuovo modello di cooperazione interstatale e, soprattutto, una nuova forma di democrazia” (cit. M. Fragola).
Ma davvero l’Italia deve rispettare i vincoli dell’ordinamento dell’Unione, e davvero essi hanno potere anche sulla nostra Costituzione? Sì, da quando sono stati stipulati (art. 11 Costituzione). Non sarà certo la riforma a cambiare questo aspetto delle cose.
I vincoli normativi sono di tre tipi:
Le decisioni: sono obbligatorie per il singolo soggetto (Stato, persona giuridica o persona fisica) al quale sono specificamente indirizzate.
Le direttive: sono obblighi per gli Stati di perseguire un certo obiettivo o risultato, lasciando determinare agli Stati stessi le modalità per farlo.
I regolamenti: è una norma di portata generale, immediatamente applicabile nelle legislazioni interne, che obbliga tutti i soggetti della UE (Stati, enti, cittadini) ad uniformarvisi.
Ma chi emana queste norme? Senza addentrarci troppo nel diritto comunitario (che però ogni buon cittadino dovrebbe conoscere), si può dire che ad esse concorrano la Commissione (composta dal Presidente e dai commissari una volta imposti, poi indicati, oggi … suggeriti dai singoli Stati), dal Parlamento (eletto democraticamente a suffragio universale diretto), e dal Consiglio, formato dai governi dei singoli Stati. In definitiva si può dire che nulla esce dalle istituzioni comunitarie se non per la volontà degli Stati, tutti gli Stati, che le compongono. La UE non è un qualcosa di esterno, la UE siamo noi. E abbiamo già gli strumenti per far valere i nostri interessi.
E come entrano a far parte del nostro ordinamento? Secondo il principio della prevalenza del diritto europeo se una norma nazionale e una europea dicono due cose diverse dovrà sempre essere applicata la seconda. Non con dichiarazione della Corte costituzionale ma con disapplicazione della norma nazionale da parte del giudice.
Questo non è certo una colonizzazione dell’Europa (che poi siamo sempre noi) ma è una regola di buon senso, necessaria a far funzionare il mercato unico. Solo così agli stati è impedito di ingannare gli altri, facendo finta di rispettare le regole comuni e poi avvantaggiando le proprie imprese.
Così è, così era, e così rimarrà, sia che vinca il Sì, sia il NO.
Il nostro parere: che fatica dover sempre smentire le false notizie allarmiste basate sulla’ignoranza.
Per approfondire, gli altri articoli del nostro “speciale referendum”:
2. Come saranno approvate le leggi con la riforma costituzione Renzi-Boschi.
3. L’origine antica di una riforma poco moderna.
4. Elezione, funzioni ed organizzazione del nuovo Senato. Va’ dove ti porta il vento.
6. Che fine fanno le regioni? Il nuovissimo Titolo V fa marcia indietro sul federalismo.
7. Le lezioni da trarre dai numeri del referendum.