SPECIALE REFERENDUM CONFERMATIVO 2016/6
di Gabriele Pazzaglia
La Costituzione ha delle regole sui rapporti Stato-regioni. Sono regole tecniche, a tratti noiose, che certo non appassionano come le libertà e i diritti. Eppure sono fondamentali per l’efficacia dell’amministrazione e quindi per la qualità della vita perché stabiliscono “chi fa cosa” e con quali risorse. Se queste regole sono poco chiare, tutto è perduto, e anche il migliore dei funzionari e dei politici si troverà nell’incertezza di avere o no un potere, di essere in grado o no di fare qualcosa.
Dunque, per capire la riforma costituzionale dobbiamo cominciare dal sistema di oggi. In due parole la base del meccanismo è che:
– in certe materie può intervenire solo lo Stato, (di seguito “competenza esclusiva”)
– in certe altre può stabilire solo dei principi e alle regioni spettano le norme di dettaglio, (“concorrente”)
– alle stesse regioni appartengono tutte le materie non nominate (“residuale”).
La dottrina è unanime nel suo giudizio negativo del sistema attuale, perché le norme sono un guazzabuglio di ambiguità e contraddizioni. E dunque, in questa parte della Costituzione, siamo davanti ad un problema strutturale((La prova provata della scarsa qualità delle norme sono le sentenze della Corte costituzionale: basta un facile comparazione tra le sentenze immediatamente successive al 2001 e quelle degli ultimi anni per accorgersi che in queste ultime manca ogni riferimento proprio…alle norme costituzionale! Oramai il lavoro di riscrittura da parte della Corte è stato così intenso che tante sentenze sono semplici citazioni di altre sentenze.)). La tesi di approfondendo.it sulla riforma renziana è oramai chiara: l’analisi delle singole norme fino a qui svolta ci ha portato a dire che gli autori della riforma siano in grave errore quando indicano come causa dell’inefficienza della macchina pubblica motivi istituzionali, la Costituzione. È un facile, quando sbagliato, scarica-barile: secondo noi invece i problemi sono politici, legati alle insufficienze della classe dirigente. Per questo sosteniamo che la melassa politica, la confusione parlamentare, e l’incapacità dei partiti di rappresentare i loro elettori, inesorabilmente, rimarranno anche con il Sì. E la riforma è dunque inutile.
Unica eccezione è proprio questo settore della Costituzione che ha veramente un problema di come sono scritte le regole. Problema però – attenzione – creato dalla stessa classe politica che oggi tenta di risolverlo. Infatti i rapporti Stato-regioni sono regolati dalla nota riforma del Titolo V del 2001 (votata dal Popolo in un precedente referendum, anche dal giovane margheritino Matteo Renzi, come da lui stesso dichiarato). Vediamo dunque nel dettaglio di chiarire gli attuali problemi e verificare se saranno risolti.
L’abolizione delle materie concorrenti.
È una categoria che ha dato molti problemi: distinguere un principio (che spetta allo Stato) e una disposizione (che attiene alla regione) è facile a parole: i primi, i principi, sono criteri e obiettivi e le altre,le disposizioni, sono gli strumenti concreti. Ma gigantesca è la casistica nelle quali è difficile distinguere concretamente gli uni e le altre e che, quindi, ha visto aumentare l’incertezza((Sulla distinzione teorica sentenza n. 272/2013 e quelle ivi citate. Un caso emblematico di quanto sia opinabile la distinzione tra principio e disposizione in concreto è la sentenza 361 n. 2003. Si trattava delle sanzioni previste dalla legge sul fumo (la 3/2003, governo Berlusconi). Rientrando nella “tutela della salute”, concorrente, secondo la Regione Toscana non erano valide perché lo Stato invece dei principi aveva stabilito disposizioni di dettaglio. La Corte invece ha detto che erano proprio principi.
È chiaro l’uso del buon senso da parte dei giudici, per salvare una legge di buon senso, ma è difficile pensare ad una norma che fosse meno “principio” e più disposizione di questa: una sanzione come conseguenza di puntuali divieti. Eppure la Corte ha detto il contrario. Segno che in questo tema non c’è davvero nulla di prevedibile.)).
A questo problema la riforma offre una soluzione radicale: l’abolizione stessa della categoria. Tutto verrà ricondotto o allo Stato o alle regioni. La scelta non sembra eccessiva perché il confine di competenza era talmente labile da non poter proprio funzionare. Ciò che lascia perplessi è che la futura competenza statale in alcune materie riproduca gli stessi difetti, perché sono state utilizzate parole ambigue: per la tutela della salute, l’istruzione, le politiche sociali, la sicurezza alimentare e il turismo lo Stato potrà stabilire solo “disposizioni generali e comuni”; sulle forme associative dei Comuni solo “disposizioni di principio”; sul procedimento amministrativo e i dipendenti pubblici si limiterà alle “norme tese ad assicurare l’uniformità sul territorio nazionale”; e infine per gli enti di area vasta i “profili ordinamentali generali”((A differenza delle prime tre norme che finiranno nel nuovo art. 117 gli enti di area vasta non andranno in Costituzione ma resteranno nell’art. 40, comma 4 della legge di riforma.)). Ciò riguarderà meno materie, certo, ma perché far rientrare dalla finestra quello che si è scacciato con ignominia dalla porta? E soprattutto, queste parole, hanno tutte le stesso significato? E quale di preciso? Proprio quello dei principi fondamentali o lo Stato potrà andare oltre ed entrare nel dettaglio? Si riproporrà in misura (minore) la stessa incertezza che c’è oggi. E lascia perplessi che questa incertezza sia tra le altre cose anche nel campo del turismo, che sempre più sta diventando strategico per l’economia italiana, e che prima durante e dopo la discussione parlamentare è sempre stato un cavallo di battaglia dal Presidente del Consiglio, come simbolo di ciò che doveva fare lo Stato. Alle parole non son seguiti fatti concreti.
Altre materie oggi, con la costituzione vigente, sono senza ragione tra la competenza concorrente: le “grandi reti di trasporto” e la “produzione e distribuzione nazionale di energia”, l'”istruzione” per le quali è ovvia l’importanza strategica. Come si può pensare che il Paese sia competitivo se ha 20 micro normative diverse su aeroporti ed elettricità?
E il testo costituzionale vigente non considera le competenze dell’Unione europea la quale, giustamente, non si ferma certo davanti ai battibecchi Stato-regioni. Ad esempio in materia di comunicazione formalmente la competenza è concorrente, ma la disciplina europea è talmente dettagliata che non resta nulla di sostanziale alle regioni. E dunque la lettura della Costituzione finisce per ingannare chi non conosce i trattati dell’Unione e la giurisprudenza delle corti.
Questi due problemi almeno sembra saranno risolti. Il trasporto e l’energia, tornano statali. Così come la “comunicazione”, con la conseguenza ulteriore che in queste materie che lo Stato non avrà più bisogno di coinvolgere le regioni quando il Governo andrà in Europa a creare le norme dell’Unione.
Qui è possibile consultare un raffronto panoramico di come viene distribuita la vecchia competenza concorrente.
L’aumento della competenza statale.
Non è possibile dire a prescindere se ciò sia un bene o male. È necessario valutare le singole competenze che dalle regioni torneranno allo Stato per poter esprimere un giudizio.
Per alcune il cambiamento è solo apparente perché, nel silenzio della Costituzione, la Corte aveva già ricondotto molte materie allo Stato. Così è stato in questi anni per i mercati assicurativi, la promozione della concorrenza, il procedimento amministrativo, la sicurezza alimentare, l’Università, la previdenza integrativa, l’ordinamento dei comuni e le associazioni tra essi, il commercio con l’estero, l’ecosistema, le professioni, la comunicazione. Lo stesso per “programmazione della ricerca scientifica e tecnologica” e la “protezione civile” che oggi, anche se formalmente concorrenti, hanno un così intenso bisogno di gestione unitaria che la Corte ha completamente ricondotto allo Stato. Ambiti disparati per i quali si avrà una correzione formale della Costituzione con il diritto vigente (che è un bene).
Rispetto ad altre materie è difficile capire le conseguenze. Le politiche sociali, oggi regionali, diventeranno statali (con il limite delle disposizioni generali e comuni) e le regioni faranno la “programmazione e organizzazione dei servizi”. Si deve sapere che già oggi lo Stato, sfruttando la sua competenza nel determinare “i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, in questo come in qualunque altro ambito, poteva entrare nella competenza regionale purché operasse con “leale collaborazione”. La Corte, ci risulta, solo in un caso ha stabilito che in questa materia la leale collaborazione non dovesse essere applicata e che fosse giusto che lo Stato agisse da solo: la social card del Governo Berlusconi((Sent n. 10 del 2010)). Se ne deduce che proprio il venir meno di questa dovrebbe essere la novità maggiore.
Lo stesso per “l’istruzione scolastica”. Anche qui allo Stato andranno le “disposizioni generali e comuni” mentre alla regione sia i “servizi scolastici” sia la “promozione del diritto allo studio”. Anche in quest’ultima caso verranno in gioco i livelli essenziali delle prestazioni.
E la tutela dei beni culturali e paesaggistici resterà allo Stato, al quale passerà anche la loro valorizzazione che oggi è delle regioni. Vedremo se ciò innoverà la giurisprudenza della Corte che ad oggi riconosce più o meno a tutte le istituzioni il potere di salvaguardare questi beni((Sent. n. 232 del 2005))).
Qualche problema sembra darla anche la rappresentanza delle minoranze linguistiche, che sarà regionale, benché allo Stato sia attribuita la competenza sulla tutela di tali minoranze (nella disciplina del procedimento legislativo).
Le novità più importanti sembrano essere in primo luogo il “governo del territorio”. I limiti precisi di questa competenza non si conoscono, perché la Corte l’ha interpretato in un primo momento come “uso del territorio e localizzazione di impianti e attività” ma poi ha sfumato affermando che per capire se qualcosa rientra o no in questa materia si deve guardare invece all’interesse che la norma regola. E dunque si può ricadere ad esempio nell’ambiente, beni culturali, energia etc.((sentenza n. 307 del 2003 e n. 383 del 2005.)) Di Sicuro la classe politica nazionale non avrà più scuse per combattere la speculazione e il rischio idrogeologico che scandiscono il dibattito pubblico italiano.
Opportuno poi è che a livello statale vengano regolate le infrastrutture per il trasporto (mentre alle regioni andranno le infrastrutture locali), compresi i porti e gli aeroporti.
Importantissima, per la rilevanza sociale, è la tutela della salute. Da concorrente che era, diventerà dello Stato. Che comunque si limiterà a stabilire “le disposizioni generali e comuni” mentre le regioni faranno la “programmazione e organizzazione dei servizi”. Per capire cosa cambia concretamente bisogna considerare che lo Stato anche in questo campo può fissare i livelli essenziali delle prestazioni e che ha competenza anche concorrente per il “coordinamento della finanza pubblica”. Quest’ultima è stata interpretata in modo estensivo dalla Corte, che ha permesso allo Stato di andare ben oltre i semplici principi e di comprimere la competenza regionale al fine di contenere la spesa pubblica purché temporaneamente. Limite questo che dovrebbe essere eliminato con il fatto che tale “coordinamento” diventa esclusivo statale. Ne consegue che esso ha tutte le carte in regola per diventare una “super-competenza” che permetta, come fosse un grimaldello, di scalzare la competenza regionale.
Saranno effettive anche le nuove competenze statali sulle attività culturali, turismo, energia e ordinamento sportivo. Oggi lo Stato ha potuto legiferare ed amministrare in questi campi ma la Corte ha sempre imposto che lo facesse con “leale collaborazione” con le regioni. Questo requisito scomparirà in tutte le materie per le quali sarà utilizzata la nuova “clausola di sovranità”. Per spiegare bene i pregi e i limiti di questa scelta dobbiamo aver chiaro un altro difetto del testo attuale.
La supremazia al posto della sussidiarietà. Lo Stato ritorna decisore unico.
Abbiamo parlato della competenze legislative, cioè di chi fa le regole. Ma chi è poi che queste regole le mette in pratica? Fatta una legge sui trasporti, quale istituzione fa funzionare i treni? Stabilite le regole sulla sanità, chi organizza gli ospedali? Deciso che si introduce la banda larga, chi costruisce la rete? La Costituzione in vigore dal 2001 è carente perché invece di dare qualche riferimento preciso si limita ad una generica preferenza: in prima battuta «le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni» ma, visto che spesso ciò è concretamente irrealizzabile, si possono conferire a istituzioni superiori, Provincia, Città metropolitana, Regione e Stato, purché sulla base di «sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza». Tradotto in italiano: ogni funzione deve essere svolta al livello più basso possibile, altrimenti si sale. Ma quando è stata dibattuta questa disposizione (nella famosa Commissione bicamerale) nessuno ha pensato alle conseguenze che si sono poi rivelate: quando lo Stato esercita una funzione per la quale la Costituzione assegna alle regioni la competenza legislativa, esso si trova nella paradossale situazione di dover lavorare con 20 leggi diverse per fare la stessa cosa su tutto il territorio. Allora la Corte ha tratto la conseguenza che, in questi casi lo Stato può anche scrivere le regole, purché l’autonomia della regione sia “recuperata” in un secondo momento nella Conferenza Stato-regioni, dove le due istituzioni devono “collaborare”, cioè discutere e trovare un accordo per lavorare insieme((Tecnicamente è l’attrazione in sussidiarietà o “chiamata in sussidiarietà” stabilita con le sentt. 303 del 2003 e 6 del 2004)).
Questo raffinato ed articolato sistema però ha dei gravi difetti. Se l’accordo non si trova, non c’è via d’uscita che la rinuncia da parte dello Stato o che questo abbia l’ultima parola con procedimenti previsti dalla legge di volta in volta discussa. E se questi procedimenti riconoscono o no sufficiente autonomia alle regione potrà deciderlo, alla fine, solo la Corte costituzionale. Così come l’opportunità della gestione da parte dello Stato di un’attività amministrativa. Con il rischio che essa si comporti come un secondo Parlamento dato che è una scelta che poco ha di giuridico e molto di politico((Raramente la Corte ha ritenuto sbagliato in radice lo svolgimento unitario di una funzione. Anche se è successo (Sentt. 81 e 374 del 2007 e 215 del 2010).
Più spesso ha riconosciuto legittima la scelta imponendo di coinvolgere le regioni escluse (tra le tante sentt. 165 del 2007 e 63 del 2008) oppure dando un ruolo più forte alle regioni (285 del 2005 e 76 del 2009))).
Nella riforma renziana, questa matassa di problemi dovrebbe essere sciolta dalla “clausola di supremazia” (art. 117.4): quando lo Stato vorrà “prendersi” delle competenze che la Costituzione se esso dirà che una norma è “interesse nazionale” nessuna regione potrà far valere la propria autonomia((Tecnicamente “tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. La seconda locuzione potrebbe ricomprendere la prima.)). La loro posizione, infatti, secondo gli autori, sarà tutelata dal nuovo Senato. Se questo si opponesse alla statalizzazione di una competenza, la Camera avrebbe bisogno di rivotare. E dovrebbe raggiungere la maggioranza dei componenti (assoluta) se con la stessa maggioranza il Senato aveva votato contro.
Questo meccanismo ha un sicuro vantaggio, permette di superare particolarismi locali a fronte dell’interesse di tutti, con un meccanismo meno farraginoso di quello attuale.
La critica è che il sistema, dopo l’eccesso “federalista” risulti sbilanciato dall’altra parte. La “difesa” del Senato è molto debole perché se rimarrà l’Italicum, che assegna 340 seggi della Camera al primo partito, questo avrà sempre la disponibilità della maggioranza assoluta (che è 316) per zittire il Senato. Inoltre come abbiamo visto vi sono materie che permetteranno allo Stato di entrare nelle materie regionali. Insomma si rischia di passare dall’ubriacatura federalista all’eccesso opposto: l’autonomia regionale non viene solo ridotta, viene azzerata.
Invece di stravolgere il sistema sarebbe stato forse più opportuno fare puntuali modifiche e soprattutto elaborare una chiara ed organica legge che integrasse le lacune della Costituzione e disciplinasse in generale e una volta per tutte questo meccanismo di decisione dell’amministrazione competente, invece di abbandonare il sistema ad una perenne fluidità che inevitabilmente si scarica sulla Corte costituzionale che può solo procedere caso per caso. Con legge invece sarebbe stato possibile stabilire un procedimento, fissando tempi ragionevoli, con un peso variabile delle regioni in base alla popolazione, con soglie di maggioranza tali che permettano sia di dare spazio alle regioni sia di trovare una sintesi con gli interessi statali. E soprattutto la possibilità di assicurare due momenti nel rapporto Stato-regioni, diversi ma egualmente importanti: quello dell’accordo tra lo Stato e tutte le regioni sulla decisione delle regole generali e strategiche (se fare aeroporti, discariche, dighe) e quello di dialogo tra lo stesso Stato e una singola regione quando questa sopporta sul suo territorio la realizzazione concreta delle scelte nazionale (come fare il singolo aeroporto, discarica, diga)((Come ben messo in evidenza dalla stessa Corte costituzionale già nelle sentt. 303 del 2003 e 6 del 2004 e ripetuto molte volte fino alla recente 163 del 2012.)). Questo secondo confronto, invece, con la riforma sarà semplicemente eliminato perché, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, le regioni dovrebbero avere un ruolo tutte insieme nel Senato.
Altro dettaglio importante è che questa clausola possa essere attivata solo “su proposta del governo” (art. 117.4). Nella relazione Renzi-Boschi si giustifica la scelta con il fatto che si vuole una “precisa assunzione di responsabilità del Governo per evitarne un uso non giustificato”. É chiaro che c’è qualcosa che non va in questo ragionamento: è il Senato, e non il Governo, che dovrebbe tutelare le regioni dall’assalto dello Stato. Quindi delle due l’una: o questa è un’ammissione che, come dicono i critici, il Senato è un organo debole, sostanzialmente inutile, oppure questa norma è un limite effettivo.
Ne consegue inoltre che il Governo dovrà indicare che entra nella competenza regionale già nella proposta e non sarà possibile farlo valere su norme aggiunte in corso d’opera in un procedimento ordinario. E rimane il dubbio sul procedimento dei testi “misti”, norme di materie già statali più altre regioni. Non è un’ipotesi fantasiosa perché le leggi regolano sempre “fenomeni” che come tali sono nella maggior parte dei casi intrecci di materie diverse: si userà solo il procedimento previsto per la “supremazia”? O vanno presentate proposte separate? È necessario saperlo perché nel primo caso il Senato avrebbe più poteri. Inoltre sono incertezze pesanti per un testo che ha come obiettivo quello di abbattere il contenzioso Stato-regioni e di rendere più chiaro e semplice il sistema.
Le regioni a statuto speciale ricevono un trattamento specialissimo.
Una delle critiche alla riforma Costituzionale è che non riguarderà le regioni a statuto speciale: Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta.
Dobbiamo precisare per poter smentire una bufala che è circolata. A non essere applicata è solo la riforma delle competenze, mentre tutto il resto si applica eccome. Dunque anche le regole del Senato dove queste regioni troveranno rappresentanza. Ecco, si capisce subito che la notizia che è stata diffusa qualche giorno fa, che esse non avrebbero eletto senatori perché gli Statuti stabiliscono l’incompatibilità tra quella carica e quella di consigliere, era una notizia sbagliata. La riforma, innovando l’intera materia della rappresentanza territoriale, “travolge” gli statuti regionali che, sul punto, devono considerarsi abrogati.
Il risultato finalerimane comunque non condivisibile. Perché mai in un quarto delle regioni si applica solo quella parte della riforma che fa loro comodo? Troveranno rappresentanza in Senato ma non cederanno una virgola delle competenze che sono garantite dai loro Statuti. Inoltre questi sono formalmente leggi costituzionali (e non potrebbe essere altrimenti perché hanno proprio la funzione di derogare la Costituzione) e dunque potranno essere modificati solo una legge approvata dal futuro Senato nel quale queste regioni, come abbiamo visto in un articolo precedente, saranno sovrarappresentate. Certo, non è una maggioranza sufficiente, ma la riforma istituisce un nuovo procedimento super-aggravato: per la modifica degli statuti oltre alla maggioranza del 2/3 servirà anche l’intesa con la regione interessata. E se questa non cede? Sembra che non ci siano altre soluzioni che lasciargli questa maggiore autonomia. Che per una pasticciata stratificazione normativa non sarà solo quella contenuta negli Statuti. Infatti, quando è stato riformato il Titolo V nel 2001 gli autori si accorsero di aver ceduto così tante competenze alle regioni ordinarie che potevano superare quelle speciali. Invece di fare una ricognizione per mettere a posto i testi normativi pensarono di scrivere una normettina che estendeva automaticamente agli statuti speciali le nuove competenze (art. 10,3). E queste, che sono abolite per tutti, rimarranno solo per le 5 regioni speciali. Così come rimarranno tutte le norme finanziarie di maggior favore. Sembra davvero troppo.
L’autonomia finanziaria resta un miraggio
Oggi le regioni hanno tre canali di finanziamento, almeno in teoria: i tributi propri, la compartecipazione a tributi erariali e un fondo che riequilibri le differenze di gettito regionale.
La riforma del 2001 però è stata messa nel congelatore dai Parlamenti successivi che non hanno mai emanato una legge cornice sulla finanza regionale, in assenza della quale, ha stabilito la Corte costituzionale, non è possibile per le regioni istituire dei loro tributi. Dunque ad oggi la regione riceve l’Irap, l’addizionale Irpef, parte dell’IVA e alcuni minori.
L’unica norma che ha provato a rendere operativo questo articolo è stata la legge sul federalismo fiscale, che aveva come principio cardine l’individuazione dei famigerati costi standard. Questa legge, oramai del lontano 2009, prevede che in base a tali costi lo stato individui “i livelli essenziali delle prestazioni” e che questi siano finanziati integralmente, se necessario, con il fondo di riequilibrio. Mentre per tutte le altre si metteva la regione davanti alla possibilità di non poter finanziare tutti i servizi, come incentivo per diventare più efficiente.
Il problema è che ad oggi non sono stati fissati né i livelli delle prestazioni (a parte la sanità), né i famosi costi standard ai quali questi si dovrebbero riferire. Vi sono solo dei decreti che stabiliscono i criteri da seguire per la loro futura elaborazione relativamente alle funzioni dei comuni((D.P.C.M. 21 dicembre 2012, D.P.C.M. 23 luglio 2014, D.P.C.M. 27 marzo 2015)).
Eppure gli autori della riforma sembrano crederci, in questi costi standard. Infatti li hanno inseriti in Costituzione. Una modifica che non avrà alcun effetto pratico dato che con la riforma lo Stato potrà fare le stesse cose che poteva fare prima.
Conclusione
Lo scopo della riforma nei rapporti Stato-regioni, come affermato dai suoi autori, è di (ri)centralizzare il potere. L’aumento delle materie di competenza statali, tra le quali soprattutto il coordinamento della finanza pubblica, e la clausola di sovranità, azzereranno la potestà legislativa delle regioni già oggi ridotta all’osso dalla giurisprudenza che la Corte costituzionale ha sviluppato sull’onda della crisi economica.
Dunque le regioni non potranno che essere degli enti di amministrazione. Non è per forza un male, non vedremo (solo) per questo la fine della democrazia. Certo da una parte non soddisfa assolutamente il nuovo Senato, che da tutti i punti di vista appare un organo senza una missione chiara e incapace di difendere le regioni, dall’altra sparisce ogni forma di dialogo con i singoli territori di volta in volta interessati e, infine, continua a non esserci una vera autonomia finanziaria che è invece il presupposto dell’amministrazione. Un modo per rivitalizzare le regioni e responsabilizzarle sarebbe di attuare finalmente, dopo 15 anni, l’art. 119 della Costituzione, dando loro la possibilità di imporre tributi propri, concludere l’elaborazione dei famosi costi standard e creare un sistema di controllo sul loro rispetto. Altrimenti riformare la Costituzione sarà solo un gioco di potere.
Per approfondire, gli altri articoli del nostro “speciale referendum”:
2. Come saranno approvate le leggi con la riforma costituzione Renzi-Boschi.
3. L’origine antica di una riforma poco moderna.
4. Elezione, funzioni ed organizzazione del nuovo Senato. Va’ dove ti porta il vento.
5. CNEL, Presidente della Repubblica, Corte costituzionale e parità di genere.
7. Le lezioni da trarre dai numeri del referendum.