nella foto di copertina: Hananeh Kian, 23 anni, uccisa a Noshahr a colpi d’arma da fuoco durante una protesta
di Marco Ottanelli,
con la preziosa collaborazione della dott.sa Shaghayegh Tajbakhsh
L’Iran è un paese peculiare. La sua antichissima storia, che risale alla formazione delle prime civiltà umane, lo ha sempre distinto dai vicini confinanti in quanto persiano, distinto etnicamente, religiosamente, culturalmente. La grande conquista musulmana, che ha sostanzialmente e uniformemente arabizzato l’immensa area che va dalle coste atlantiche del Marocco fino al Tigri in Mesopotamia, in Iran ha lasciato intatto il ceppo originale delle popolazioni; anche il fatto che gli iraniani siano la quasi totalità degli sciiti, li distingue come non-arabi, i quali arabi sono per la stragrande maggioranza sunniti. Tutte queste peculiarità e le vicende storiche della Persia-Iran degli ultimi secoli hanno creato, tra gli abitanti, uno strato culturalmente imponente e spesso modernissimo, al quale si affianca un blocco molto tradizionalista, fondamentalista, arretrato e fermo, se non immobile, nella evoluzione sociale. Il contrasto tra queste due realtà è sfociato spesso in conflitto ed è una delle cause delle difficoltà di quel Paese nel trovare una via condivisa e pacifica di stabilità: repressivo era il regno sotto la dinastia Quajar (1794-1925), repressivo l’impero dei Pahlavi (1925-1979), repressiva è la Repubblica Islamica nata dalla rivoluzione khomeynisita del ’79.1.
Uno strano ibrido
La Repubblica Islamica dell’Iran nata dopo la cacciata dello Scià Reza Pahlavi si è costituita attorno alla figura – indubbiamente carismatica per milioni di persone – di Rohollah Khomeyni, Grande Ayatollah (Marja’ al Taqlid o Ayatollha al-ʿUẓma) fin dal 1963, e poi Guida Suprema, carica da lui e per lui istituita, dal 1979 alla sua morte, dieci anni dopo.
Quel che ne è risultato è uno Stato il cui regime è un ibrido bislacco tra dittatura e democrazia. Non si può infatti dire che l’Iran sia una democrazia nel senso occidentale del termine, eppure ha un Parlamento, eletto a suffragio universale, e nel quale le donne sono ben rappresentate, un Presidente della Repubblica eletto anch’esso a suffragio universale, assemblee territoriali paragonabili ai nostri consigli regionali, sindaci e consigli comunali votati dal popolo. Le competizioni elettorali si svolgono in relativa libertà, e i candidati (che si presentano in schieramenti concorrenti, schieramenti che non possiamo chiamare partiti nel senso europeo del termine, ma comunque ben distinti tra loro) competono anche aspramente l’un con l’altro, non solo per i seggi parlamentari, ma anche per la presidenza della Repubblica, dimostrando con ciò che vi è una pluralità di idee, progetti, programmi, ideologie che sono sottoposte al vaglio degli elettori (con un fortissimo limite, però! Ne parliamo nel paragrafo successivo). Insomma, l’Iran ha un “arco costituzionale” tutto suo, come, in fondo, anche noi abbiamo il nostro.
Però… ecco il però: su tale assetto si innestano altre strutture a carattere prettamente religioso che in definitiva controllano la Politica ed i suoi atti attraverso il setaccio a maglie strette della legge coranica sciita khomeynista, esercitando un extrapotere, costituzionalizzato, sì, ma non democratico. Al di sopra di tutto poi è la Guida Suprema, una carica a vita ricoperta da un Ayatollah, la cui parola è sempre l’ultima e che ha facoltà di nomina o di controllo sulla quasi totalità degli organi dello Stato, incluse le forze armate e il sistema giudiziario. Guida Suprema e altri istituti, come il Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione, hanno anche il potere di escludere singoli candidati o gruppi interi dalla competizione elettorale, e di impedire, bocciare, o modificare proposte e atti del parlamento. Questa selezione, questa censura, si è manifestata pesantemente nelle ultime elezioni quando alla maggior parte degli schieramenti e candidati moderati e progressisti sono stati bocciati e non si sono potuti presentare.
Se volessimo trovare una definizione del regime iraniano, potremmo tentare con teocrazia, intendendo con ciò che pur non vigendo un assolutismo totalitario (forse più forte in Arabia e altri alleati dell’Occidente nella regione), in Iran ogni questione politica, sociale, ma persino etica morale e personale è sottoposta alla vigilanza e alla attinenza della Legge Divina. Non sono pochi, ricordiamolo, i paesi che applicano la Sharia, nel mondo, e in alcuni di essi è assai più repressiva (…i Talebani…); ciò che distingue l’Iran è proprio quella sussistenza robusta (e anche ideologicamente ampia, che va dal liberalismo borghese al marxismo militante) di una moderna società civile dinamica e che è riuscita a conservare intatte le prerogative di una vita perlomeno accettabilmente “libera”. Nessuno in Iran, per fare un esempio, proibirebbe alle bambine e alle donne di frequentare le scuole.
Una vita accettabilmente libera
È quando la pervasività del regime teocratico assolutista sconfina oltre l’accettabile, che gli iraniani si ribellano. A costo della vita. Le rivolte di questi ultimi mesi sono diverse, almeno in parte, da quelle seppur imponenti già viste (e purtroppo tutte represse duramente) negli anni scorsi. Semplificando al massimo, possiamo dire che le manifestazioni precedenti chiedevano riforme, riforme politiche, sociali, liberali, ma pur sempre all’interno della forma di Stato iraniana esistente; si pensi ad esempio alla grande serie di manifestazioni del 2009, quelle che in Occidente vennero subito classificate con il solito nomignolo colorato “rivoluzione verde”: esse si svolsero in conseguenza del risultato delle elezioni presidenziali, che videro il conservatore Ahmadinejad prevalere sul più progressista Mousavi. Furono soprattutto i sostenitori dello sconfitto che affollarono le piazze, fu soprattutto un moto di protesta per il voto e per i presunti brogli, fu un movimento che, guardando a Mousavi, puntava a migliorare l’esistente. Oggi è diverso. Quella odierna ha più la caratteristiche del rifiuto, del rigetto, della volontà di porre termine alla violenza e alla oppressione dello stato teocratico in toto, soffocante e ormai in mano alle frange più brutali dei suoi apparati paramilitari. Il grande problema di una teocrazia è che, coincidendo essa idealmente con la Assoluta Verità, non può, non potrà mai essere riformata: essa è, o non è. E giovani iraniani lo percepiscono e vivono sulla loro pelle, sanno che la soluzione non è in qualche misera concessione dall’alto: il loro futuro è compromesso da un insostenibile gravame moralista, controllato da minoranze (il Clero, i Guardiani della Rivoluzione, la Polizia Morale) che sono piccole grandi caste le quali detengono, oltre al potere politico, anche quello economico, essendosi impossessate con ogni mezzo delle risorse del Paese, e che avidamente sfruttano a loro unico vantaggio. Lo scontro, stavolta, è quindi totale. Non può che essere anche tragico.
Morire per una ciocca
Come sappiamo, le rivolte di questo fine 2022 sono state innescate dalla tragica fine di una ventiduenne curda, Mahsa Amini, morta quando si trovava nelle mani della Polizia Morale che l’aveva fermata per non aver indossato correttamente il hijab, il velo che deve coprire i capelli delle donne in Iran. Pare che da esso le spuntasse una ciocca, motivo sufficiente per essere arrestata, trattenuta, e comunque siano andate le cose, fatta morire nello stato di detenzione. Ma si può, nel 2022, morire per una ciocca? La risposta delle giovani e dei giovani iraniani è stata un no forte e coraggioso, nobile diremmo, viste le conseguenze cui vanno incontro. Le donne, che soffrono la condizione di inferiorità assegnata loro dalla Sharia, hanno dato il via alle rivolte schierando ed esponendo il loro corpo, le loro persone, in prima linea. Sono loro, le ragazze, le donne, che hanno meno diritti, che quindi reclamano più diritti, e che conseguentemente rischiano di più.
Mahsa era curda, si trovava in vacanza a Teheran, e qualcuno ha voluto soffiare sul fuoco delle differenze etniche, ma questo fuoco è stato spento dalla la dignità del popolo curdo, che ignorando le minacce e le misure delle autorità, ha partecipato in massa e con fermezza ai funerali della povera ragazza, e dalla solidarietà di tutti i giovani iraniani che a Teheran e nelle altre città stanno sacrificando sé stessi per la pari libertà, di tutti. Da quel fatale 13 settembre, migliaia e migliaia di studenti (ma non solo) stanno protestando in tutto il Paese, contestando la violenza delle polizie e dei corpi paramilitari, ma anche la imposizione del velo e lo strapotere dei religiosi. Il famoso gesto del taglio dei capelli è stato uno degli atti simbolici di queste proteste, ma la reazione si fa sempre più brutale violenta e quasi sadica. I morti tra i giovani sono centinaia. Sono spesso ragazzini di 16 anni, come Kumar Daroftateh, ucciso da armi da fuoco a Piranshahr, o come Sarina Saedi, colpita a Sanandaj; o 14enni, come la piccola Parmis Hamnav, deceduta per le bastonate ricevute. E migliaia e migliaia sono i feriti, i percossi, i fermati, gli arrestati. Eppure, le proteste continuano.
Ci si potrebbe chiede chi siano questi ragazzi, chi li guida? Ovviamente le più alte autorità iraniane li hanno accusati di essere manovrati dagli stranieri, dai nemici occidentali, ma la realtà, testimoniata anche da gli iraniani all’estero, è che essi siano parte di un movimento spontaneo; se c’è una qualche organizzazione è solo a livello universitario o di quartiere, è probabile che vi siano associazioni e gruppetti che concentrano i partecipanti in piazze e strade, ma l’esplosione della mobilitazione in tutte le città e per settimane intere è la prova di una diffusione genuina della protesta. Notiamo che innanzi tutto, innanzi a tutti, ci sono le ragazze, le donne. È per i diritti delle donne, contro l’oppressione culturale e la discriminazione dei sessi, contro un sistema ed una mentalità per i quali la donna è sottoposta all’uomo-maschio e alle sue regole patriarcali e soffocanti, è per la morte di una di loro accusata di non aver perfettamente rispettato un assurdo precetto, è contro la sottomissione che le donne sono scese in piazza, hanno guidato i cortei, hanno parlato in pubblico e hanno sofferto le più crudeli conseguenze.
Poi ci sono tutti gli altri. Sul chi sono, proviamo a dare una nostra interpretazione: per cultura, formazione ed età, forse soprattutto per l’età, questi giovani e giovanissimi sono assai lontani dalle nostalgie per-rivoluzionarie o dalle emozioni post-rivoluzionarie. Non hanno ricordi né legami con quella che fu la Persia dello Scià. Non hanno neanche memoria né particolare emozione per l’avvento della Repubblica: per loro il 1979 è un passato lontano e sepolto. Non hanno neanche quella sorta di commossa identità che unì il Paese in occasione della tragica guerra di aggressione che gli fu scatenata da Saddam Hussein2, non hanno la politicizzazione comunista marxista che ha sovente influenzato la resistenza in tutto il Medio Oriente.
Ma non sono qualunquisti, anzi. Sono stanchi di vivere sotto il tallone assolutista e violento che conoscono dalla loro nascita. Per loro, il normale è divenuto l’intollerabile, senza compromessi. E lo stanno dicendo con le loro voci, il loro trovarsi insieme, i loro gesti. Gesti significativi come levarsi il velo, bruciarlo nelle strade, tagliarsi i capelli, cantare allegramente tutti insieme, o, ultima trovata, quello di levare il turbante a himam e ayatollah. Un gesto di completo rigetto e di dimostrazione beffarda di quanto l’impianto clericale dello stato non regga più: quei pretoni minacciosi e tuonanti diventano omuncoli piccini e ridicoli quando gli levi il cappello sacrosanto, e si affannano a rimetterselo, quasi li avessero lasciati nudi. È in effetti un denudamento di quel potere di presunta origine divina, è il Re Nudo, un re nudo parcellizzato e diffuso che dimostra così di non essere un cemento inscalfibile, ma un insieme di minuscoli granelli di sabbia.3
Lo scontro è totale.
Siamo quindi in presenza di uno scontro totale, ma impari. Totale perché non c’è compromesso possibile tra la Repubblica Islamica, i suoi sostenitori (che, sia ben chiaro, non sono pochi, sono ancora una parte non indifferente della popolazione), il suo apparato che ormai tutto pervade, e coloro che cadono a decine, a centinaia, per il proprio libero arbitrio. Impari perché contro una massa estesa, ma informe e inerme, di cittadini, di donne, di giovanissimi, si muovono polizie e gruppi armati dotati di potere assoluto, e, come abbiamo già scritto, violenti fino al sadismo. Il motivo è (anche) nel fatto che tali gruppi vedono in ogni mutamento una minaccia alla loro privilegiata condizione. E poi c’è sempre il fanatismo. E il terrore di trovarsi davanti ad uno scenario iracheno, o siriano. Quando diciamo che lo scontro è totale, ci riferiamo al fatto che gli attori in scena sono molteplici: non si può sperare in un cambiamento radicale sostituendo il Presidente o il Consiglio della Rivoluzione, il processo deve essere a più ampio raggio. Proviamo a fornire uno schema di chi siano e quale ruolo abbiano, nello Stato e nella crisi attuale, i vari attori. La complessità della situazione richiede per forza di cose una certa sintesi.
Ali Khamenei: Attuale Guida Suprema, membro del Partito Islamico Repubblicano (1979-1987), presidente della Repubblica (1981-1989) della Associazione dei Chierici Militanti (1977-1989) fino cioè alla sua nomina alla più alta carica iraniana.
Conservatore e rigido tanto in politica interna come in politica estera, è stato accusato di aver ordinato l’uccisione di centinaia di oppositori e di aver favorito (o ordinato) la repressione più dura di ogni protesta. Anche in questo 2022 ha avuto un ruolo molto forte nella repressione, che, d’altro canto, non sarebbe possibile senza un suo assenso; ha dichiarato che le proteste sono causate da interferenze straniere dei nemici dell’Iran.
Ebrahim Raisi: Attuale Presidente della Repubblica, in carica dall’agosto 2021. Anch’egli proveniente dalla Associazione dei Chierici Militanti, ha alle spalle una lunga carriera giudiziaria, come procuratore, procuratore capo e presidente della Corte Suprema. In qualità di magistrato ha fatto parte di quel gruppo che dal 1981 al 1988 ordinò l’esecuzione di un numero impressionante di oppositori politici. Le autorità iraniane negano i fatti ma le testimonianze sono numerose e solide. Da quando è Presidente, le restrizioni sociali si sono inasprite; ha aumentato l’attività della polizia morale, proprio quella che ha causato la morte di Mahsa Amini
Sepah Pasdaran: più noti semplicemente come pasdaran, cioè i Guardiani della Rivoluzione. Praticamente i pretoriani della Guida Suprema. Suddivisi in forze di terra, aeree e navali, sono delle vere e proprie forze armate. Non sono solo un organo militare, ma anche politico ed imprenditoriale, controlla le importazioni e le esportazioni del paese, detenendo così un enorme quota della ricchezza nazionale. In questa crisi, hanno attivamente partecipato alla brutale repressione, soprattutto nelle regioni del Kurdistan e del Baluchestan, poste agli estremi del Paese e abitate in gran parte da etnie “non persiane”.4
Basij: è una milizia volontaria di combattenti, formata da irregolari che non prestano un vero e proprio servizio militare, e che agiscono in borghese. Sono una delle formazioni più fanaticamente legate alla Guida Suprema e alle autorità religiose. È di fatto una sorta di polizia religiosa, che si sta distinguendo per la violenza nel soffocare le manifestazioni di questi giorni. I basisji, i membri del Basij, attaccano e colpiscono un po’ ovunque, accanendosi su singoli soggetti o partecipano assieme alla polizia alla repressione.
Esercito regolare: è la grande incognita del momento. Esso è uno dei più grandi eserciti del mondo, assommando, tra personale, armati in servizio e riservisti, a circa un milione di uomini e quindi ha un ruolo potenziale determinate. Nella situazione attuale pare non abbia preso parte direttamente alle azioni violente contro la popolazione civile. Ricordiamo però come l’esercito sia almeno in parte controllato, infiltrato, dai Pasdaran, e come nel recente passato sia stato sottoposto a pesantissime e sanguinose purghe, allorquando tutti i generali e gli alti ufficiali sospettati di essere fedeli alla monarchia o considerati non sufficientemente proni al nuovo potere teocratico furono arrestati e fucilati, in un vero bagno di sangue.
È dunque con questo insieme di attori che giovani, studenti, donne devono confrontarsi. La loro mobilitazione è esposta a mille difficoltà e mille attacchi. Come si può ben immaginare, tale mobilitazione è seguita con particolare emozione dalla grande diaspora iraniana, cioè da quei quattro milioni e oltre di persone che dal 1979 hanno deciso di vivere all’estero. E all’estero operano personaggi e organizzazioni che da sempre si oppongono al regime khomeynista e oggi tentano, seppur in modo molto diversi, di contribuire alla lotta in patria. Su tutti, per prestigio, emerge Reza Pahlavi, figlio dell’ultimo Scià, che, fondatore del Consiglio Nazionale Iraniano per le Libere Elezioni, si è fatto catalizzatore di un ampio fronte democratico, laico, liberale. Pahlavi, che è in contatto con partiti e cancellerie di tutto il mondo, è però fermamente contrario ad ogni intervento straniero, sostenendo che gli iraniani devono e possono farcela da soli seppur, certo, con ogni aiuto possibile, aiuto che non deve mai trasformarsi in ingerenza o men che meno in azioni militari. Notevole è anche il ruolo di Hamed Esmailiun uno scrittore che vive in Canada, presidente dell’Associazione delle famiglie delle vittime del volo PS752 (nell’abbattimento del quale morirono sua moglie e sua figlia). Esmailian ha organizzato una manifestazione globale contro la Repubblica islamica per gli iraniani che vivono all’estero, per sostenere le proteste iraniane contro il regime.
Punto di riferimento per le donne iraniane, alle quali ha dato voce e che incoraggia con i suoi scritti, è la giornalista e blogger Masih Alinejad, seguitissima in patria e all’estero.
Che fare
Rispetto a questa tragedia, ma anche opportunità di cambiamento, cosa può e deve fare il mondo libero? Noi occidentali, noi paesi democratici, come dovremmo muoverci? La questione è complicata, complessa e delicatissima. L’Iran, lo sappiamo, è un “nemico” dei nostri governi, un “pericolo” al quale sono imposte sanzioni, un certo isolamento ed una costante ostilità. D’altra parte, l’Iran stesso ha funzionato, nel silenzio dei nostri media, come potente elemento nella lotta contro i Talebani, che esso ha combattuto aspramente (ayatollah contro mullah, verrebbe da dire), e come grande cassa di espansione per i profughi afgani (che nel tempo sono diventati circa 3 milioni!), sostenendo insomma un peso non indifferente della guerra Nato-Talebani. Stessa cosa per la Siria devastata dall’Isis, che ha riversato circa un milione di profughi in Iran e dove l’intervento iraniano, coordinato con quello russo, ha portato alla sconfitta del Califfato in modo quantomeno uguale ai bombardamenti Usa-Nato. Insomma, nonostante tutto, l’Iran così come è, fa anche comodo. Non per nulla, all’inizio della guerra russo-ucraina, gli USA di Biden hanno tentato un prudente riavvicinamento con regime iraniano, riavvicinamento tentato in parte dalle ciniche dinamiche geopolitiche (per le quali è oggi importante isolare la Russia, al costo di legittime o rilegittimare regimi fino a ieri considerati impresentabili, come quello chavista venezuelano) ed in parte sulla spinta del National Iranian American Council, una ong con base a Washington di grande influenza e risorse, accusata da molti iraniani all’estero di essere in realtà una sorta di salvagente della Repubblica Islamica, dato che la sua linea è quella di trovare un accordo con la teocrazia, e non per il superamento del regime. Oggi gran parte della responsabilità dei rapporti Usa-Iran sono sulle spalle del diplomatico Robert Malley, l’incaricato speciale americano per l’Iran, col quale tenta di ricucire l’accordo sul nucleare denunciato da Trump. La sua posizione è sul filo del rasoio: non può, in questo momento, auspicare la caduta degli ayatollah, pena il suo immediato disconoscimento da parte del governo di Teheran (il che porterebbe ad una ulteriore crisi internazionale ed un ancor maggiore avvicinamento tra Khamenei e Putin), né può sconfessare le aspirazioni al cambiamento totale dei manifestanti, la qual cosa costituirebbe il loro abbandono de facto da parte dell’occidente.
Per le cancellerie americane ed europee è quindi decisivo prendere una posizione chiara in appoggio ai giovani iraniani, ma è anche evidente che la loro forza (essere indipendenti, spontanei, non controllati da interessi di parte) è anche la loro debolezza: sono disorganizzati, non hanno un vertice che li coordini e che si possa assumere responsabilità e possa prendere precisi impegni, non hanno una centrale alla quale indirizzare aiuti concreti e diretti, non sono, allo stato attuale, in grado di esprimere una qualsiasi alternativa al regime che vogliono abbattere. Un meraviglioso e coraggioso caos, ma pur sempre un caos. O lo si trasforma in un movimento politico solido e ben definito, con tanto di dirigenti, quadri, strutture, o sarà ben difficile che possa reggere ancora per molto e che possa diventare un interlocutore realistico.
Quindi, non essendo in grado, nel nostro piccolo, di suggerire che fare, ci sentiamo però di fare appello ai governi occidentali su cosa non fare:
Non cercare di trasformare l’Iran in una neocolonia al nostro servizio: se vogliamo un Iran libero, dobbiamo accettare che sia anche indipendente, e non, come molti aspirano, un fedele (e sottomesso) alleato. Da nemico non dobbiamo cercare di trasformarlo in servo.
Non cercare di far emergere, dal turbine delle opposizioni, un gruppo organizzato quale che sia, purché prometta una presunta stabilità: l’immane errore è stato fatto con i miliziani di Bengasi in Libia, coi Fratelli Musulmani in Egitto e persino con i pazzi criminali dell’Isis in Siria, appoggiati, finanziati e armati (almeno all’inizio) dagli USA e altri occidentali in chiave anti-Gheddafi, anti-Mubarak e anti-Assad; i risultati si sono visti!
Non abbandonare l’opposizione laica, liberale, anticlericale, e un po’ sognante di questi ragazzi in nome di presunti perbenismi o convenienze con strutture economiche potenti, non abbandonarli neanche in caso di momentaneo arrestarsi del movimento (non possiamo chiedere loro di continuare a farsi ammazzare per la strada), ma trasmettere la sicurezza che sempre e comunque, anche in futuro, saremo al loro fianco.
Non persistere nella politica senza soluzione delle sanzioni, perlomeno non in questa forma, che, come abbiamo visto, non solo non danneggiano i regimi (esiste un solo esempio di sanzioni che l’abbia mai fatto?) ma neanche incide nelle capacità militari dell’Iran, tant’è vero che esso si è trasformato in un fornitore di armi alla Russia! Le sanzioni, così come sono oggi, in realtà impoveriscono solo la popolazione civile e rendono difficilissimi la vita e i rapporti degli iraniani all’estero con i parenti in patria.
Non abituarci alla sofferenza e al dolore degli altri, avere empatia, in ogni modo possibile, manifestarla ed esplicitarla, è il nostro piccolo grande dovere anche di cittadini
Il mondo, lo stiamo vivendo e capendo tutti, è ad una svolta: facciamo in modo che sia la migliore, per tutti.
- È impossibile dimenticare, tuttavia, che alcuni coraggiosi e forse un po’ precipitosi tentativi di democratizzazione e modernizzazione e di libertà sono stati schiacciati, anzi, eliminati, dai Paesi occidentali (in particolare da Gran Bretagna e Stati Uniti), che ben preferivano regimi autocratici controllabili e ricattabili a governi indipendenti di grande consenso popolare. In particolare, giova rammentare il periodo della Seconda Guerra Mondiale, durante il quale la Persia venne occupata, lo Scià venne deposto a forza e venne posto sul trono il figlio, molto più debole e quindi gestibile (non per niente la fondamentale conferenza interalleata tra Churchill, Roosevelt e Stalin si svolse proprio a Teheran), ed il colpo di stato organizzato e portato a termine dall’ MI6 britannico e dalla CIA statunitense ai danni del primo ministro Mohammad Mossadeq nell’agosto del 1953, che venne violentemente deposto avendo egli osato sfidare il sistema di sfruttamento da parte degli anglosassoni dei giacimenti petroliferi iraniani, nazionalizzandoli. Non si può certo dire che Mossadeq fosse un sincero democratico, anzi, aveva assunto, con metodi spicci, un potere pressoché dittatoriale; ma fu l’intervento esterno a provocare una crisi drammatica, qualcuno ha detto “definitiva”, nella evoluzione liberale iraniana. Non dissimili saranno le circostanze e le conseguenze della Crisi di Suez, che coinvolse l’Egitto pochi anni dopo [↩]
- la guerra Iran-Iraq, scatenata dal dittatore iracheno, durò quasi nove lunghi anni, e provocò ingentissime perdite materiali e soprattutto umane alla neonata Repubblica Islamica. Si parla di quasi un milione di caduti. Tale conflitto, fomentato, voluto, incoraggiato, armato da Usa e Nato, è stato uno dei più grandi crimini dell’Occidente, e, come si vide poco dopo, anche uno dei suoi più immani errori: il regime iraniano fu consolidato, anzi, cementato, in quel bagno di sangue, mentre Saddam, gonfio di sete di potere e di armi occidentali, rivolse le sue mire, una volta fallita la guerra con il più grande vicino, sul piccolo Kuwait. Ne seguirono l’invasione ed il martirio di quell’emirato, le due guerre del Golfo, l’occupazione dell’Iraq ed il suo assoluto sfacelo, che è stato una delle ragioni di esistere dell’Isis. Citando la famosa vignetta di Altan: “poteva andare peggio? NO” [↩]
- nb: a tutti coloro che in Italia, dall’alto del podio del loro comodo divano, hanno detto e scritto che tale gesto è brutto e criticabile, perché “per la religione ci vuole rispetto”, ricordiamo cosa dicevano scrivevano e invitavano a fare i nostri Patrioti su preti, vescovi e cardinali ai tempi dello Stato Pontificio: studino, e imparino quanto dolorosamente stretta sia la gabbia delle teocrazie [↩]
- in tali regioni sta avendo un ruolo importante il Molavi Abdul Hamid, himam sunni della città di Zahedan e leader delle minoranze sunnite iraniane: si è apertamente espresso contro la violenza della polizia, ha espresso pubblicamente la sua solidarietà con i manifestanti baluchistani (in quella regione vi sono stati un centinaio di morti) e, soprattutto, anche con quelli del resto del Paese, proclamando l’unità di intenti con essi. Proprio per il suo ruolo riconosciuto di leader assai popolare, la sua presa di posizione è da considerarsi con attenzione. Si dice contrario alla pena di morte, contrario alla discriminazione educativa delle donne, e si presenta come un moderato-progressista. Ma la sua figura è un po’ ambigua, essendo egli comunque a favore del velo obbligatorio ed avendo espresso qualche elogio sui “nuovi” Talebani afghani [↩]