di Marco Ottanelli
Si è dimesso il governo islandese. Ed immediatamente è stato sostituito da un esecutivo di minoranza di sinistra. Un piccolo terremoto politico ha scosso l’Islanda, che da mesi soffre gli effetti della crisi finanziaria più di altri Paesi.
La riapertura dell’Althing o Alþingi (il Parlamento più antico del Mondo) dopo la lunga sospensione invernale, il 20 gennaio scorso, ha spinto una folla di cittadini islandesi di tutte le età a protestare proprio davanti alla sede dell’assemblea. Quando i deputati sono arrivati per dare inizio alla sessione parlamentare, un numeroso gruppo di contestatori ha assediato la Camera, battendo con pentole e casseruole (come gli argentini dopo il crack del 2002) e cercando addirittura di irrompere all’interno. Per la prima volta da decenni, ci sono stati scontri con la polizia, che ha risposto con gas urticanti, una carica e persino degli arresti. Il più giovane dei fermati ha soli dieci anni. Uno choc per un Paese terribilmente sotto pressione dallo scoppio della crisi. In queste condizioni, del tutto eccezionali per un popolo tradizionalmente tranquillissimo (i circa 320 mila islandesi sono tutti parenti, si può dire), il Primo Ministro Geir Haarde non ha potuto che constatare il mancato ristabilirsi della normalità, il mancato rientro dell’emergenza, e la mancata stabilizzazione finanziaria, ed ha rassegnato le dimissioni. L’unico risultato raggiunto è la frenata del crollo della moneta, la corona, ottenuta a costi elevatissimi. Un disastro, insomma.
Ma cosa diavolo è successo, in Islanda? Perché quella terra opulenta ,ricca e spensierata è crollata sotto i colpi di una crisi finanziaria che ha, per adesso, ben poco toccato la “economia reale” di un Paese traballante come l’Italia?
Non pretendendo certo di spiegare in un breve articolo scritto da non specialisti le dinamiche di una economia di Stato, proviamo però a dare alcuni indicatori che dovrebbero far riflettere coloro che hanno ceduto alle lusinghe di tutti i partiti e sindacati per trasferire il loro TRF ed investire in fondi pensione, così come reso possibile dalla relativa legge bipartisan del 2005, e seguenti bipartisan modifiche.
Per una complessa serie di eventi, l’economia islandese aveva preso a correre, basata sempre meno sulla produzione di merci e manufatti e sempre più sulla particolare congiuntura finanziaria. Tra tassi di cambio, tassi di interesse e parametri di reddito (altissimo), i risparmiatori islandesi hanno avuto una grossa capacità di investire liquidi all’estero. L’operazione era enormemente conveniente: si contraeva un debito in Europa, in USA e – soprattutto- in Giappone, dove il tasso di sconto e di interesse era bassissimo (fino allo zero nipponico), e con i soldi presi in prestito, si compravano obbligazioni e bot islandesi, che davano un rendimento del 5-6%. Ovviamente una simile percentuale ha fatto gola anche agli investitori stranieri, che hanno comprato quei titoli in massa. Il che ha significato che lo Stato si è impegnato, a fronte di un enorme flusso di capitali da redistribuire ai suoi concittadini, a pagare interessi per miliardi di corone. Il gioco del debito all’estero e del reinvestimento in patria, con il guadagno reinvestito ancora all’estero, e così via, ha ovviamente interessato non solo qualche singolo danaroso, ma le stesse banche ed istituti privati.
È così partita una campagna di convincimento nei confronti di lavoratori e pensionati, affinché investissero il loro Tfr e le loro pensioni in fondi privati, che si collocavano puntualmente all’estero, comprando tutto l’acquistabile in termini borsistici per poter poi a loro volta ricomprare titoli nazionali, e nel frattempo indebitandosi ancor di più sui mercati asiatici e occidentali, per disporre di più liquidi. Come in quei giochi-truffa a piramide, si trattava di un colossale castello di carta che è schiantato quando la bolla speculativa ha fatto puf. Nonostante già nel 2006 si fossero avute serie e preoccupanti avvisaglie, (alcune banche erano entrate in crisi), drenando il denaro dei lavoratori, con i fondi pensione e simili, si era continuato ad alimentare l’illusione. Molti islandesi, gonfi di denaro sopravvalutato, andavano letteralmente a fare la spesa negli USA, che, con il loro dollarino claudicante, erano diventati una sorta di enorme discount. Alcuni mollarono il duro lavoro (come molti pescatori atlantici) per vivere di rendita, e, insomma, nel Paese dei Balocchi nessuno, politici e banchieri in testa, si rendeva conto della situazione allarmante.
Poi, nell’ottobre 2008, il botto. Al crollo delle borse mondiali, la minuscola Islanda si è resa conto di una serie di cose: gli investimenti sulle piazze nordamericane e asiatiche erano svaniti nel nulla, inghiottiti dai fallimenti e dal deprezzamento delle azioni. I creditori esteri, nell’emergenza, hanno preteso la restituzione immediata di quanto dato in prestito, e, contemporaneamente, gli investitori son passati ad incassare capitale ed interessi dei bot e delle obbligazioni islandesi. La corsa all’incasso ha fatto svalutare drammaticamente la corona, il che ha aperto un ulteriore doppio baratro, sia nel cambio e rientro dei capitali investiti all’estero, sia nel pagamento del dovuto agli stranieri. Quando i soldi son finiti (nel giro di pochi giorni, se non ore), ci si è resi conto della più drammatica delle realtà: anche i capitali privati dei lavoratori e pensionati , avventatamente lanciati in acrobazie speculative, erano bruciati.
La crisi da “finanziaria” si è fatta immediatamente “reale” perché liquidazioni, pensioni e contributi non erano più collocati nel sistema previdenziale nazionale, ma, affidati a privati e speculatori, erano semplicemente parte di un lavoro basato sul rischio monetario e sul guadagno ad esso relativo. Tutto era privato, e nulla poteva essere garantito dallo Stato, affossato oltretutto dagli interessi sui titoli pubblici. In un baleno la gente, senza più soldi in tasca, si è precipitata verso le banche, le assicurazione o le finanziarie per ritirare fisicamente il salvabile e metterlo sotto il provvidenziale materasso, ma questo è stato il colpo finale alla liquidità e alla solvenza.
L’Islanda si è trovata nella impossibilità di pagare l’enorme debito e di ritirare i capitali disseminati all’estero. Gli ardimentosi privatizzatori di pensioni e tfr, dopo anni di vacche grasse e di enormi guadagni per i broker, si son ritrovati con pezzi di carta straccia nei depositi. È stato il collasso. I beni islandesi sono stati congelati quasi ovunque nel mondo, e, per poterlo fare con rigore e immediatezza, la piccola isola nordica è stata inclusa nella lista delle organizzazioni terroristiche da parte del governo britannico. Solo massicci prestiti internazionali hanno evitato la carestia.
A questo punto, un consiglio pratico. Chiunque si sia fatto sedurre dalle sirene dei fondi pensione e dei trasferimenti del proprio Tfr verso gestori privati (fossero anche di solidi istituti o di popolari sindacati) farebbe meglio a farsi fare il punto della situazione e a sottoporre il proprio piano di investimento, così come da prospetto, ad un consulente indipendente (le associazioni di consumatori più importanti trattano di questi temi con rigore e professionalità). Fidarsi è un bene, ma evitare di cadere dalla immobile Inps alle tempestose acque della finanza speculativa internazionale è meglio.