di Marco Ottanelli
L’articolo numero uno di ogni Costituzione è un po’ il suo slogan. Racchiude o dovrebbe racchiudere tutto lo spirito e tutti gli ideali, tutte le speranze e tutte le aspettative di un popolo.
Il nostro articolo 1 recita così:
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Come si vede, sono due frasi, due concetti (detti commi) molto semplici e molto brevi. Ma la loro importanza è altissima, anche se tra il primo ed il secondo comma la portata è enormemente differente. Notevole fragore ha suscitato la boutade del ministro Brunetta di modificare il primo comma. È quindi importante chiedersi quanto e come questa asserzione, L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, sia determinante. Per saperlo, occorre andare ai lavori della Assemblea Costituente, e leggerne i resoconti.
Fin dai primi giorni, era il 1946, ci fu un lungo dibattito su cosa – e come – scrivere nell’articolo uno. Ognuna delle parti politiche principali (socialista, comunista, cattolica, liberale, populista) voleva dare una “impronta” propria alla costituzione, imprimendo i suoi principi preferiti proprio nell’articolo uno.
Quindi la discussione impegnò per mesi tutti i capi dei partiti, e tutti i costituzionalisti più importanti. Buona parte dell’opera di mediazione e di sintesi fu svolta da Meuccio Ruini, il presidente del Comitato dei 75, comitato che preparerà la quasi totalità degli articoli prima di sottoporli alla Assemblea.
Prima però di esaminare a fondo l’articolo 1, proviamo a vedere come sono i primi articoli di alcune costituzioni paragonabili alla nostra.
La Costituzione degli Stati Uniti d’America
Scritta nel 1787 (ha quindi 223 anni, e …funziona benissimo!) è fatta di soli sette articoli, ma molto, molto lunghi. Ognuno di essi organizza una parte della vita della Nazione. Essa comincia con un preambolo (una premessa) che dice così:
Noi, Popolo degli Stati Uniti, allo Scopo di realizzare una più perfetta Unione, stabilire la Giustizia, garantire la Tranquillità interna, provvedere per la difesa comune, promuovere il Benessere generale ed assicurare le Benedizioni della Libertà a noi stessi ed alla nostra Posterità, ordiniamo e stabiliamo questa Costituzione per gli Stati Uniti d’America.
E dopo, prosegue partendo dalla base della democrazia moderna: il sistema parlamentare
Articolo I
Sezione 1. Di tutti i poteri legislativi qui concessi sarà investito un Congresso degli Stati Uniti che consisterà di un Senato e di una Camera dei Rappresentanti…
Era, per una nazione del 1700 che doveva liberarsi dalla monarchia assoluta del Re di Gran Bretagna, una novità veramente rivoluzionaria. Quindi, i valori più importanti per gli americani erano la rappresentatività dei parlamentari, che, eletti direttamente dal popolo, erano gli unici che potevano fare le leggi (non più il re, o il governatore, neanche il governo: solo il Parlamento può farlo!); e l’unione delle tredici ex colonie inglesi in un nuovo stato federale, gli U.S.A.
La Costituzione Francese
Riscritta dopo la Seconda Guerra Mondiale, inizia con un preambolo, che è molto importante:
Il popolo francese proclama solennemente la sua fedeltà ai diritti dell’Uomo ed ai principi della sovranità nazionale così come sono stati definiti dalla dichiarazione del 1789, confermata ed integrata dal preambolo della Costituzione del 1946.ù
Questo proclama solenne impegna la Francia e qualunque suo governo a rispettare i diritti fondamentali dell’Uomo.
Prosegue poi con questo comma:
La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Essa assicura l’eguaglianza dinanzi alla legge a tutti i cittadini senza distinzione di origine, di razza o di religione. Essa rispetta tutte le credenze.
Quindi, per i francesi, i principi fondamentali sono l’indivisibilità della Repubblica, la sua missione democratica e di giustizia sociale, e la sua laicità, cioè la sua completa separazione da tutte le religioni e da tutte le Chiese. Come visto prima, per l’articolo 7, in Italia questo non è completamente possibile.
Costituzione dei Paesi Bassi
È una costituzione molto antica, ma che è stata in piccola parte aggiornata, il cui primo articolo recita:
Tutte le persone che si trovino nei Paesi Bassi saranno trattate ugualmente in uguali circostanze. Discriminazioni basate sul piano religioso, credo, opinione politica, razza o sesso o su ogni altro qualsivoglia terreno, non saranno permesse.
Per gli olandesi, dunque, il principio più importante in assoluto è l’uguaglianza, il divieto di qualsiasi discriminazione e l’impegno a trattare tutti nello stesso modo. E questa costituzione non si rivolge solo ai proprio cittadini, ma a tutti gli esseri umani che “si trovino nei Paesi Bassi”, quindi anche immigrati, turisti, rifugiati, studenti…E’ una visione molto moderna e democratica dei diritti da garantire.
Cosa esprime invece il nostro articolo 1? Esso dichiara che l’Italia è una Repubblica democratica, e lo dice come prima cosa in assoluto. Quindi la Repubblica, la democrazia e l’Italia non sono scindibili, sono una in funzione dell’altra. Questo concetto è talmente importante che si ricollega direttamente con l’ultimo articolo, il 139, che afferma:
La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale.
Quindi mai più monarchia, o dittatura, o impero, o qualsiasi altra forma di Stato che non sia pienamente e democratico e repubblicano.
Poi, sempre al primo comma dell’art. 1 si sostiene che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro. Questo concetto nobile è in realtà molto debole, non afferma nulla se non una speranza, e non obbliga lo Stato a dare lavoro a tutti. Infatti l’Italia ha moltissimi disoccupati, e nel passato tantissimi italiani sono dovuto emigrare all’estero per lavorare, e si parla di milioni di persone. Non è neanche un vero e proprio obbligo per i cittadini di lavorare (come era in Unione Sovietica, una dittatura comunista!). È solo una sintesi ideologica di parte del pensiero socialista, comunista e popolare, osteggiata, nella sua formulazione e nella sua collocazione, da quasi tutti gli azionisti, e che fu ideata, non a caso, da Amintore Fanfani, uno dei leader della Democrazia Cristiana, che volle e riuscì a concludere un dibattito piuttosto prolungato e che rischiava di impaludarsi per mesi dando una sorta di contentino ideologico a quella sinistra operaista alla quale, in cambi, la DC chiese ed ottenne molto, molto di più in termini di definizione dei rapporti con la Chiesa, degli articoli sulla famiglia e sulla istruzione, e certi articoli sulle libertà.
Dire che l’Italia è “fondata sul lavoro” non costava nulla, e rendeva molto, alla parte più moderata dell’Assemblea costituente. I comunisti, soddisfattissimi, accettarono felici il “lodo Fanfani”. Ringrazieranno, con gli interessi, al momento della votazione sul Concordato.
Molto più importante è invece il secondo comma (e sarebbe bello se oggi si parlasse di quello, piuttosto che dell’accenno vago al lavoro). Si trattava di stabilire, una volta per sempre, di chi fosse la sovranità, cioè chi fosse il detentore iniziale e finale dei poteri di decisione dell’Italia repubblicana.
Il Governo? No! Infatti, era stato così sotto il fascismo (e… purtroppo lo sarebbe anche secondo molte delle riforme costituzionali proposte negli ultimi anni). Il Parlamento, come negli Stati Uniti? Neppure! Perché il nostro non è un parlamento federale e, a differenza di quello statunitense, viene completamente rinnovato ogni 5 anni. Quindi, il vero detentore non poteva che essere l’intero Popolo. “Lo Stato, che è depositario del potere di comando, lo esercita attraverso gli organi del suo ordinamento; ma questi organi sono azionati e ricevono autorità e forma dal popolo che, direttamente o indirettamente, dà ad essi tutta la capacità della sua manovra”. Così scrisse un costituente, l’on. Grassi.
Ruini commentò così la discussione che seguì e che riguardò principalmente i termini da utilizzare: “la sovranità risiede nel popolo, appartiene al popolo, emana dal popolo, è del popolo, sta nel popolo eccetera. Stanco del dibattito, io mi sono rimesso alla Costituente per la scelta del verbo. Non inopportunamente è stato scelto «appartiene» al popolo; mentre «emana dal popolo» poteva far dubitare che, una volta emanato, non risiedesse più nel popolo”.
La scelta della parola “popolo” non è casuale. Infatti non si parla dei soli elettori, ma proprio di tutti quelli che sono italiani, uomini, donne, bambini, neonati e anche, per certe accezioni, gli stranieri residenti sul nostro territorio (residenti a tutti gli effetti, non anche di passaggio come in Olanda!).
Il fatto che quindi la sovranità ci appartenga non deve essere mai dimenticato. Non è il presidente del Consiglio, non sono i parlamentari che comandano: essi sono solo i nostri rappresentati, e devono (dovrebbero!) ascoltarci e mettere in atto le nostre aspirazioni ed i nostri desideri.
Dice ancora l’art. 1 che il popolo, questa sovranità, la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Cosa vuol dire, questo? Vuol dire prima di tutto che gli strumenti e gli atti di sovranità popolare devono essere previsti dalla Costituzione, e non possono essere né più né meno di quelli.
Nessuno può arbitrariamente aggiungerne di nuovi (tipo il plebiscito, cioè una consultazione popolare per fare approvare un certo comportamento o decisione) e nessuno può togliere o sminuire quelli esistenti. I quali, sostanzialmente, sono questi:
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le elezioni, attraverso le quali tutti i cittadini maggiorenni sono chiamati a scegliere i partiti e i candidati che poi formeranno le assemblee legislative (Camera dei Deputati, Senato, e i consigli regionali, provinciali, comunali e di quartiere) e, recentemente, anche con l’elezione diretta di chi ci amministra (presidenti di regione e di provincia e sindaci), ma non di chi ci governa (il che trasformerebbe la nostra repubblica da parlamentare a “direttoriale”).
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Il referendum abrogativo, che permette ai cittadini di eliminare una legge che non piace. Non importa che la legge in questione sia… giusta o sbagliata: è solo il “gradimento” del popolo che decide se eliminarla o meno. Non possono essere oggetto di referendum le leggi fiscali e quelle di ratifica di trattati internazionali.
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Il sistema giudiziario in senso lato. Infatti, le sentenze dei tribunali sono emesse in nome del Popolo italiano e anche se questa sembra solo una forma retorica, è invece un costante riferimento al fatto che la giustizia va applicata solo nell’interesse e secondo lo spirito della intera comunità e non per favorire una parte o l’altra della comunità stessa. Una sentenza che non rispondesse ai principi democratici (tutti!) della Costituzione non sarebbe valida, perché non potrebbe essere fatta nel nome del popolo italiano che nella costituzione si riflette.
È dunque altrove, e non nell’articolo uno, che si parla seriamente di lavoro. Esso viene citato, direttamente o indirettamente, in molti articoli della Prima Parte della Costituzione: il 3, il 35 e il 36 (ed in una buona parte del Titolo III, dei rapporti economici) , e, seppur quasi di rimando, nel Titolo V della Seconda Parte. Ma l’articolo sul lavoro per eccellenza, è, indubbiamente, il quarto.
Art. 4.
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
La decisione di citare il lavoro ben due volte nei principi fondamentali (art. 1 e il presente art. 4) deriva dalla lunghissima e complessa discussione che si tenne nel corso di un anno e mezzo (dal luglio del 1946 al dicembre del 1947). Le maggiori difficoltà furono nelle visioni opposte che avevano socialisti, comunisti, cattolici popolari da una parte, e liberali, liberisti e cattolici conservatori dall’altra, del ruolo dello Stato nel determinare o meno l’economia di una nazione. In particolare si discusse molto sul concetto di diritto-dovere al lavoro.
Nessuno contestava che la Repubblica Italiana dovesse assicurare a tutti il diritto di lavorare, ma Togliatti (Pci) Basso (Psi) e anche qualche democristiano suggerivano di trasformare questo diritto di lavorare in un “diritto al lavoro” assicurato dallo Stato. Ciò avrebbe significato che lo Stato stesso avrebbe dovuto procedere per “piani economici” (sullo stile, si criticò, dei piani quinquennali sovietici) che prevedessero il numero di impiegati obbligatorio anche nelle industrie e imprese private. La sola ipotesi provocò la più ferma opposizione di Luigi Einaudi, che diventò poi, nel 1948, Presidente della Repubblica.
Altro importantissimo dibattito si tenne sul secondo comma, quello che parla di dovere nell’esercitare una attività o una funzione. Alcuni deputati comunisti e socialisti, con l’appoggio dei democristiani La Pira e Aldo Moro, arrivarono ad ipotizzare conseguenze durissime verso coloro che non avessero partecipato attivamente alla vita economica del paese: fannulloni, ereditieri, disoccupati volontari, pigri e improduttivi sarebbero stati esclusi dai diritti politici, addirittura dal diritto di voto. Si ipotizzò persino un comma che suonava così: «nessuno ha il diritto di vivere nella Repubblica se non lavora».
Come si può notare, le buone intenzioni dei costituenti erano tanto paternaliste e moraliste quanto poco concrete e realizzabili. La sincera volontà di impedire che qualcuno vivesse del lavoro e del sacrificio altrui senza a sua volta produrre nulla si scontrava con una serie di considerazioni che, prima nelle commissioni, poi nel dibattito in assemblea, vennero sottoposte ai deputati. In primo luogo: può uno Stato democratico imporre il lavoro obbligatorio, e quindi forzato? E come può farlo, trascinando in catene i suoi stessi cittadini? Secondo: chi è che partecipa alla produzione e alla economia del Paese? Un suonatore, un poeta, un pittore, il proprietario di una miniera, lo fanno o devono essere essi considerati parassiti? Le monache di clausura (questo esempio fu citato in molti interventi, a volte con una certa ironia), che pregano e basta, esercitano una attività o no? Terzo punto: con la massa di disoccupati e di sotto occupati che negli anni ’40 faceva letteralmente la fame, era sensato parlare di punire coloro che non avevano un lavoro? Non risultava questo fortemente offensivo rispetto alla condizione del popolo italiano? Insomma, sia il concetto di obbligo al lavoro sia quello di diritto di ottenere sempre e comunque un lavoro da parte dello Stato furono fortemente ridimensionati.
Ci vollero le sagge parole di Amintore Fanfani (DC), di Umberto Tupini (DC), di Giuseppe di Vittorio (Pci) e soprattutto quelle di Piero Calamandrei (azionista) che, mediando tutte le posizioni, portarono l’assemblea a tre decisioni: quella di affiancare il concetto di “funzione” per la società a quello di “attività”, in modo da comprendere anche i ruoli intellettuali, spirituali e artistici; quella di considerare il diritto ed il dovere al lavoro due concetti solenni e non due obblighi imperativi; quella di portare tali principi tra i principi fondamentali, staccandoli dalla sezione economica, per dare ad essi il valore che meritavano e per rafforzare il primo comma dell’articolo 1 che, soprattutto a Calamandrei, pareva un po’ troppo vago e debole.