di Gabriele Pazzaglia
Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rifiutato di nominare, in un primo momento, il governo proposto da Lega e Movimento 5 Stelle, perché in disaccordo sulla linea politica rappresentata dal candidato al Ministero dell’Economia, prof. Savona. Sono seguite richieste di messa in stato d’accusa del Capo dello Stato da parte del M5S e di Fratelli d’Italia (un partito di maggioranza e uno, tecnicamente, di opposizione), poi rapidamente ripiegate.
Un accordo è stato poi trovato dirottando Savona al meno rilevante Ministero (senza portafoglio) delle politiche europee.
I giochi quindi sono fatti e a mente fredda possiamo ragionare sul potere presidenziale di nomina dei ministri.
L’ambiguità sull’euro e l’UE, espressa da Savona e dalle forze politiche che lo hanno proposto, non ci piacciono. Questa rivista è un fermo sostenitore del progetto europeo, laico e liberale, e crediamo che l’euro sia una grande opportunità per l’economia italiana, i cui guasti sono altrove, nella spesa pubblica improduttiva e incontrollata, disorganizzazione della Pubblica amministrazione, corruzione e criminalità comune e mafiosa, mancanza di concorrenza e responsabilità.
Ma a nostro avviso il rifiuto del Presidente alla prima proposta di Governo è contrario alle regole costituzionali del nostro Paese. Vi sono argomenti giuridici in tal senso che non possono essere ignorati.
Parimenti sono contrarie alla Costituzione le scomposte reazioni alla sua scelta e l’accusa di attentato alla Costituzione (ex art. 90).
Il Presidente della Repubblica può rifiutare un Ministro? E perché?
Il conflitto ruota attorno all’art. 92 della Costituzione che in questi giorni è stato ripetuto fino alla noia: «Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i Ministri».
Una norma piana, semplice, lineare. Ma anche troppo sintetica e quindi lacunosa. Perché da essa si può ricavare solo che il potere di nomina è del Capo dello Stato e che i Ministri gli vengono proposti.
Ma il problema è ciò che non dice: chi ha l’ultima parola in caso di disaccordo? Il Presidente ha un potere di veto? E in tal caso a quale parametro dovrebbe fare riferimento?
È chiaro che la soluzione non può essere trovata con la semplice lettura della norma. È proprio in questi casi, per colmare queste lacune che serve il metodo giuridico. Per questo ci sono i giuristi, che essendo specializzati in questo, dovrebbero essere capaci di andare oltre, conoscendo la natura dei vari istituti e la connessione tra gli stessi, l’evoluzione delle disposizioni e la realtà alla quale si applicano.
Affrontato così il problema, constatiamo subito che sul punto non vi è alcuna giurisprudenza costituzionale. Mai un caso è stato deciso dalla Corte perché tutti i (rari) dissidi che sono stati portati a conoscenza della pubblica opinione sono stati risolti con un accordo. Dobbiamo quindi cavarcela da soli.
In questi giorni la legittimità della scelta presidenziale è stata sostenuta da politici, giornalisti e costituzionalisti con vari argomenti. Alcuni anche plausibili, altri meno.
Nelle Tv e giornali generalisti tutto si è ridotto al ricordo di tre casi famosi: Previti, proposto a Ministro della Giustizia nel 1994, fermato da Scalfaro; Maroni, proposto per lo stesso ministero nel 2001 non accettato da Ciampi; Gratteri nel 2014 rigettato da Napolitano. E da questo alcuni deducono che esista proprio un potere di veto.
Ma questi casi non sono pertinenti perché tutti i giudizi furono motivati dalle condizioni personali dei candidati Ministri, e non dalle loro opinioni politiche. Previti era l’avvocato del Presidente del Consiglio Berlusconi, Maroni era sotto processo per resistenza a pubblico ufficiale, Gratteri era un magistrato in servizio.
E questo giudizio personale, anche se nessuno in questi giorni l’ha detto, è lo stesso usato da Scalfaro quando incaricò Amato di formare il governo nel 1992, al quale chiese proprio «di escludere» tutti coloro sui quali vi fossero indagini in corso anche «allo stadio più preliminare»((Raccontato direttamente da Amato nel suo scritto Un governo nella transizione. La mia esperienza di Presidente del Consiglio, in Quaderni costituzionali, 1994, p. 362)). Certo fa sorridere pensare che due anni dopo sarebbe iniziata l’era berlusconiana, ma questo fu l’argomento usato dall’allora Presidente.
Un gruppo di costituzionalisti fiorentini ha sostenuto la legittimità della scelta di Mattarella in una nota nella quale ha spiegato che il Presidente ha agito conformemente alla lettera della Costituzione e alla sua prassi applicativa, perché non è un notaio ma, al contrario, «è titolare di poteri propri che insieme gli assegnano una funzione d’indirizzo politico costituzionale».
Questi concetti sono stati ribaditi dagli stessi professori in un incontro pubblico il 30 maggio, presso l’Università di Firenze, al quale ho assistito.
In tale incontro essi hanno precisato che questa prassi di “interferenza” del Quirinale risale agli anni ’60 con la Presidenza Gronchi, trova antecedenti addirittura in Einaudi negli anni ’50, e continua con Pertini per arrivare ai giorni nostri, con l’interventismo di Napolitano((Ad Einaudi ha fatto preciso riferimento Mattarella nel maggio scorso, considerando la sua attività tutt’altro che notarile.)). La cosa inedita – spiegano ancora – è che questa volta le obiezioni del Capo dello Stato non sono state accettate: infatti la tendenza del Presidente della Repubblica, negli ultimi anni, per via dell’indebolimento dei partiti, è stata quella di espandere il suo ruolo (che è elastico, è come una fisarmonica).
Tendenza che – concludono i professori – è l’estremo sviluppo della funzione di «indirizzo politico-costituzionale» che il Capo dello Stato ha per la sua posizione. Egli cioè ha il potere di attivarsi affinché «l’indirizzo politico di maggioranza», i suoi obiettivi, anche contingenti, rispettino quelli permanenti stabiliti nella Costituzione. Questi concetti, elaborati dal grande giurista Paolo Barile, spiegano, secondo loro, perché siamo sì ai margini dei poteri presidenziali, ma comunque all’interno della Costituzione((Elaborata nel libro Barile, Scritti di diritto costituzionale, Padova, 1967 p 260.
Per avere un quadro diretto delle argomentazioni a supporto della legittimità della scelta di Mattarella da parte di uno dei costituzionalisti firmatari della nota v. E. Cheli, Le competenze di Capo dello Stato e Governo in Treccani Magazine, pubblicato pochi giorni fa.)).
Ma questa conclusione non convince pienamente, proviamo a spiegare perché.
I poteri del Presidente. Quelli espressamente previsti.
Anche se è certo ed assodato che il Presidente della Repubblica abbia questa funzione di controllo di costituzionalità, la Costituzione, per farlo, gli affida poteri tassativi. E sono molti: quali i poteri di controllo (la convocazione delle Camere, la richiesta di nuova deliberazione delle leggi, la firma dei disegni di legge del Governo, dei suoi Decreti-Legge e dei regolamenti) e quelli di impulso (lo scioglimento delle Camere e il meno penetrante potere di messaggio). L’unico organo a competenza generale, però, è il Parlamento data la sua diretta rappresentanza popolare. E non a caso esso è l’unico che può permettere il pieno funzionamento del Governo o costringerlo alle dimissioni, tramite la fiducia, l’istituto attorno al quale è costruita tutta l’impalcatura costituzionale. Attribuire un potere di veto al Presidente della Repubblica sarebbe un sproporzionato rispetto alla sua elezione indiretta.
A questa conclusione sono arrivati anche costituzionalisti come l’ex presidente della Corte costituzionale Valerio Onida e la professoressa Ginevra Cerrina Feroni pochi giorni fa. Ed anche gran parte della dottrina elaborata prima del rifiuto di Mattarella propendeva per questa tesi, Ad esempio Martines((T. Martines, Diritto Pubblico, Giuffré editore, 1990, p 147)), Baldassarre((A. Baldassarre, Il Capo dello Stato di, in Manuale di diritto pubblico, di G. Amato e A. Barbera, p 538)) e lo stesso Barile secondo il quale «pretese di esclusione e inclusione nella scelta dei ministri sono del tutto estranee alla funzione presidenziale», perché rientranti nella piena autonomia dell’incaricato((P. Barile, Scritti di diritto costituzionale, CEDAM, 1967 p 308)). Ed anche alcuni degli stessi professori fiorentini, come ad esempio Caretti e De Siervo , giuristi giustamente stimati per la loro profonda conoscenza della materia, sostenevano questa opinione nei loro testi fino a qualche anno fa((P. Caretti, U. De Siervo Diritto costituzionale e pubblico Giappichelli, 2012, p 244)). Caretti, nell’incontro del 30 maggio, ha spiegato che tutto è cambiato negli ultimissimi anni per l’evoluzione della situazione politica, e la debolezza dei partiti che ha portato ad un’espansione del ruolo del Presidente estremizzando una situazione iniziata con Pertini.
Tutti i no al Presidente.
Ma un’analisi complessiva della prassi, se essa indica qualcosa, non mostra univocamente un potere di ultima istanza del Quirinale nella scelta del governo. Anzi, a fronte di casi nei quali l’ingerenza è andata a buon fine ve ne sono altri in cui i partiti e i loro gruppi parlamentari hanno resistito e prevalso.
Ad esempio il presidente Gronchi. Egli è stato ricordato anche nell’incontro fiorentino per essere stato un grande interventista. Ed è vero: si pensi che aveva una propria politica estera di dialogo con l’URSS. Ma per questo suo attivismo subì già all’epoca pesanti critiche e veri e propri atti contrari dagli altri attori politici. Soprattutto nel 1957 con la formazione del governo Zoli: il Quirinale chiese che avesse due vicepresidenti, Pella e Gonella, rispettivamente della destra e sinistra DC, per guadagnare l’astensione dei voti del Movimento sociale e dei socialisti. Ma la segreteria democristiana accettò solo il primo nome spostando l’asse del governo a destra. Ed è infatti contro le segreterie dei partiti che Gronchi rivendicherà ufficialmente il suo diritto di «collaborare alla formazione del governo», per «rispondere alle esigenze del Paese e rispettare l’autorità e il prestigio del Parlamento». Si aprì una fase intricatissima: Zoli ottenne la fiducia ma i voti dell’MSI risultarono determinanti. Quindi si dimise perché non accettava che il governo si reggesse suoi voti (non richiesti) dei neofascisti. Tentò allora Fanfani di formare un suo governo, ma fallì. Gronchi finì quindi per ripescare il governo Zoli, ne respinse le dimissioni, e lo rispedì alle Camere (che formalmente gli avevano dato la fiducia). Il Governo lavorò per un anno, certo, ma non nella composizione voluta da Gronchi il quale rivendicò sì il suo diritto, ma nei fatti seguì la volontà del Parlamento espressa con la fiducia((Cfr. E. Spagna Musso, Cronache di una crisi di governo: la formazione del Gabinetto Zoli in Rassegna di diritto pubblico. – 12 (1957), pt. 3, p. 501-531)).
Qualche anno prima una cosa simile successe ad Einaudi con il governo Pella il quale propose un rimpasto di Governo. Ma i gruppi DC di Camera e Senato non accettarono il Ministro dell’agricoltura sgradito a Coldiretti. Pella, sentendo che il partito si stava spaccando, finì per dimettersi, contro il volere dello stesso Einaudi. Quest’ultimo protestò per l’ingerenza dei partiti nella scelta dei nomi, che riteneva di esclusiva spettanza del Presidente del Consiglio incaricato, ma si vide rifiutato il nuovo incarico direttamente dall’interessato. E la successiva nomina del primo Governo Fanfani venne respinta dal Parlamento. Fu quindi necessario nominare Scelba per ampliare la base parlamentare al PLI, PRI e PSDI((L. Einaudi, Lo Scrittoio del presidente, Einaudi, 1956, pp. 32-35)). Ma non era proprio il risultato sperato dal Quirinale.
E anche un Presidente da tutti riconosciuto interventista come Pertini a volte non ebbe vita facile. Pensiamo al Governo Andreotti V. Con la fine della solidarietà nazionale (cioè con l’uscita del PCI dalla maggioranza) iniziò un periodo di riassestamento: Il Presidente incaricò Andreotti che, dopo un giro di faticose consultazioni e di ipotesi su varie combinazioni politiche, venne spinto dai socialisti a rimettere il mandato affinché fosse affidato ad un laico. E così Pertini individuò (senza consultazioni) il repubblicano La Malfa, che non riuscì a raccogliere consensi per il mancato accordo DC-PCI. Pertini tentò infine con un nuovo incarico ad Andreotti, al quale in modo del tutto irrituale, impose direttamente come vicepresidenti La Malfa e Saragat, affinché il Governo che sembrava destinato a gestire le elezioni avesse comunque rappresentatività. Il Governo poi non ottenne la fiducia, ma quello che qui interessa è che Saragat non accettò comunque la vicepresidenza, che era uno degli elementi del disegno ideato da Pertini((G. Smurra, L’iter di formazione del v governo Andreotti: una lunga crisi “al buio” senza via d’uscita, in Federalismi.it)).
Dunque la prassi mi pare non sia univoca e quindi non consolidata perché, nel circuito Popolo-Parlamento-partiti-Presidente, quest’ultimo non sempre ha avuto l’ultima parola. A volte i partiti e i presidenti del consiglio hanno seguito le indicazioni, o è stato trovato un compromesso, altre volte le hanno rifiutate ed hanno prevalso.
Semmai il Presidente ha esteso i suoi poteri quando, durante l’era Napolitano, i partiti si sono rimessi alla sua volontà (come con il Governo Monti, Letta e, in parte, Renzi). Ma questa è una vera e propria patologia del sistema che non può essere legittimata se ripetuta. Di contro, anche se il sistema dei partiti oggi, è più debole e fluido che nella prima Repubblica, non è negabile che l’accordo M5S-Lega fosse una linea politica abbastanza precisa per essere sostenuta e votata in Parlamento.
Sbagliato uscire dall’euro. Ma legale.
Abbiamo detto che il Presidente svolge un controllo di costituzionalità. Ma qui, quali norme precise sono applicate? Nella sua dichiarazione ufficiale Mattarella ha fatto riferimento all’art. 47 che tutela il risparmio. E non poteva fare altro perché (purtroppo) uscire dall’euro è legale. L’art. 50 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea lo prevede a richiesta di un Paese, in base alle sue regole costituzionali, salvo l’onere di trovare un accordo con gli altri Stati membri.
E le nostre regole stabiliscono che basta una legge ordinaria, a maggioranza dei presenti, così come con tale legge sono stati approvati i Trattati. Infatti, quando l’Italia partecipò alla fondazione dell’allora Comunità Europea, data la contrarietà del PCI e l’astensione del PSI, l’unica maggioranza raggiungibile era quella semplice. E allora si disse che essa bastava perché così prevedeva l’art. 11 della Costituzione, nonostante esso fosse stato pensato per aderire all’ONU. La Corte costituzionale accettò l’interpretazione, ma nonostante il progressivo diffondersi dell’europeismo in Italia (il Trattato di Lisbona è stato approvato all’unanimità), non si è mai modificato l’art. 11 stabilendo una maggioranza più alta per acconsentire alle «limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni» (art. 11).
Difficile pensare che un governo con Savona all’Economia ci avrebbe portati fuori dall’euro. Non si sarebbe potuto permettere di fare così tanto danno all’Italia. Ma anche se questo fosse stato l’obiettivo, ciò non è, come abbiamo spiegato, incostituzionale. E dunque faccio fatica a pensare che questa scelta rientri nella tutela dell’«indirizzo politico-costituzionale». Mi sembra molto più un giudizio schiettamente politico.
Inoltre, nella sua dichiarazione ufficiale, Mattarella ha richiesto che il Ministro fosse un «esponente politico della maggioranza». Ma allora come si spiega che anche Tria, il nuovo Ministro, sia un tecnico non eletto?
Come è andata a finire. Lezioni per la prossima volta.
Alla fine un Governo è nato, pare, con un accordo a metà strada tra il Presidente e i partiti. Savona c’è, ma altrove.
Dunque, chi ha vinto? Chi ha perso? Il potere del Quirinale è stato affermato? La linea politica è cambiata? Sembra sia adesso incardinata in Europa, ma comunque critica, per chiedere riforme. Diventa importante capire ora quali riforme, argomento sul quale purtroppo la confusione regna sovrana.
Ma data l’importanza dello scontro al quale abbiamo assistito, la mia opinione è che Mattarella abbia corso un rischio molto, troppo, elevato. Se si fosse arrivati ad elezioni in tempi brevi, il pericolo era di mettere la presidenza in contrapposizione al popolo. E se una maggioranza ancor più antieuropeista si fosse manifestata, la stessa capacità di argine della massima carica dello Stato ne sarebbe uscita politicamente indebolita.
Mi pare che la funzione di indirizzo politico-costituzionale del Presidente non possa essere estesa così tanto. Quando essa fu pensata erano gli anni ’60 e c’erano interi pezzi della Costituzione inattuati. Ad esempio il referendum e il diritto di famiglia, erano costantemente bloccati “dall’ostruzionismo della maggioranza” (Calamandrei). E alcuni partiti si battevano esplicitamente affinché l’attuazione non avvenisse: ad esempio il PLI non voleva l’istituzione delle regioni.
Ma i tempi sono ben diversi. E bisogna stare attenti che questa funzione protettiva non diventi uno strumento per impedire idee, quali una certa politica monetaria, che a me sembrano economicamente sbagliate, ma che in uno stato liberale debbono poter trovare espressione. Altrimenti si rischia, col nobile scopo di salvaguardare la democrazia, di impedire che essa maturi.
Una postilla: La messa in stato di accusa.
L’art. 90 della Costituzione stabilisce che «Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione».
Le forze politiche che hanno evocato questo procedimento con toni e aggressività inaccettabili, dimostrando solo mancanza di compostezza, di autocontrollo e di argomenti.
Questo procedimento viene grossolanamente chiamato impeachment, ma con questo istituto statunitense non ha nulla a che vedere. Negli USA, è un giudizio politico, che ha come conseguenza la sola rimozione dalla carica, ed il giudizio è effettuato dal Senato su richiesta dell’altra Camera. In Italia è un giudizio penale, che ha come conseguenza il carcere, ed il giudice è la Corte costituzionale su richiesta del Parlamento in seduta comune.
Questo attentato alla Costituzione, non è mai stato precisamente definito da una legge e dunque sul punto esiste solo molta dottrina che ci ha ricamato sopra. L’unico aggancio legislativo sembra essere l’art. 283 del codice penale che punisce, con almeno 5 anni, «un fatto diretto e idoneo a mutare la Costituzione dello Stato o la forma di Governo». Ma è richiesto un atto violento, e soprattutto il dolo! Mentre è palese che Mattarella abbia sostenuto di voler attuare la Costituzione.
Se si contesta semplicemente che un organo dello Stato eserciti un potere che non ha, lo sbocco fisiologico è un ricorso alla Corte costituzionale per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato. Ricorso che non è una passeggiata, perché mai avvenuto su questo tema ma che, a mio giudizio, avrebbe dovuto essere proposto dal soggetto incaricato dallo stesso Presidente, in questo caso da Conte.
Ci vorrebbero mesi, certo, e si potrebbe arrivare ad un nulla di fatto. Ma ciò è frutto dell’ambiguità nel quale è stata lasciato il rapporto tra il Presidente e gli altri attori politici nella formazione del Governo. Un’altra conferma che la nostra Costituzione non ha bisogno di grandi riforme, ma di precisi aggiustamenti e chiarificazioni. Per esempio stabilendo con legge che l’incarico debba essere conferito con un formale decreto presidenziale, in modo da dargli sicura rilevanza giuridica. Era così all’inizio della Repubblica, finché Gronchi non è passato all’incarico orale proprio nell’ottica dell’espansione dei poteri presidenziali.