Il discorso di Fini a Mirabello e la sua portata politica. Un tentativo di analisi.

di Marco Ottanelli

Forse per la prima volta dai tempi della svolta di Fiuggi, Gianfranco Fini ha goduto, il 6 settembre, di una attenzione mediatica e popolare eccezionale, e, essendone consapevole, ed essendone stato in un certo senso l’artefice, ha sfruttato al massimo l’opportunità. Grande comunicatore ed eccellente oratore, Fini ha sviluppato un vero e proprio manifesto politico-programmatico–ideologico, effettivamente di un livello tale da superare tanti proclami ridondanti e vuoti ascoltati negli ultimi anni sia a destra sia a sinistra.
Ma cosa ha affermato, e quali conseguenze possono portare le sue parole? Cerchiamo di darne una lettura “scientifica” senza partigianerie e senza preconcetti.

La prima e più importante questione generale che il Presidente della Camera ha ripoposto è quella della centralità del parlamentarismo come forma costituzionale di Stato. Che, proclamata da un presidenzialista come lui, dovrebbe far molto rumore. Fini è stato esplicito, e ha costellato l’intero suo discorso di riferimenti al potere e al valore del Parlamento. Ha più volte ricordato come è lì che si formino le leggi, e come si possano trovare legittimamente accordi anche fuori dagli steccati governo-opposizione, perché la Costituzione italiana prevede che un governo goda della fiducia delle Camere, sì, ma non che sia esso ad esercitare la funzione legislativa.

Rimettere il Parlamento al cento della vita politica italiana è un importantissimo appello che Fini lancia ai suoi competitori, avversari e simpatizzanti, è anzi una vera sfida, che potrebbe portare alla fine dei cesarismi e dei leaderismi di destra e e alla fine dei sogni di rivalsa a suon di governicchi tecnici di sinistra. L’esempio più eclatante è sembrato il richiamo alla riforma della legge elettorale: Fini ha detto “facciamola”. E per farla, non serve altro che una maggioranza numerica in Parlamento, basta contarsi, basta verificare se su un progetto di legge elettorale, quale che esso sia, si trova il 50% + 1 dei consensi.

Questo è un richiamo forte e importante, nell’attuale dibattito, che merita un appunto: stante la nostra Costituzione, non c’è alcun bisogno di costituire alcun governo di transizione, per questo, né di alcun ribaltone: basta una proposta di legge e, SE i parlamentari sono in grado di approvarla, essa diventerà norma effettiva. Nessuno impedisce ai parlamentari di proporre, approvare, e quindi mettere in atto una legge di riforma qualsiasi, sia essa relativa alle elezioni come a qualunque altro argomento. Chi predica la necessità di un “governo tecnico per fare la nuova legge elettorale“, di pochi mesi, o, come assurdamente è toccato sentire, a scadenza di 90 giorni, o mente sapendo di mentire, o vuole semplicemente arrivare surretiziamente al potere sull’onda di una emozione.

Questa è la sfida, lascia intendere saggiamente Fini: accordarsi su un testo, e farne legge, al di là e oltre e nonostante il governo in carica. Il parlamento può farlo, se i particolarismi vengono meno: bene, che lo faccia. Sulla legge elettorale come su altri temi, quali il lavoro, l’attenzione ai giovani, il welfare, pare promettere dal suo scranno istituzionale, basta che tale proposta sia calendarizzata con riguardo.
Ma su questi temi appena elencati, si delinea forte un altro aspetto della nuova politica di Futuro e Libertà, che forse dovrebbe togliere molte velleità ad alcuni e sollecitare interesse crescente in altri: la visione della politica sociale che Fini ha offerto è quella di una stretta osservanza della dottrina politica cattolica, democristiana, anzi, democristiana postlapiriana. In certi tratti dossettiana.

Fini ha completamente eluso e deluso le aspettative di coloro che attendevano un suo richiamo forte e netto ai valori della laicità e alla estensione dei diritti civili in senso, appunto, laico. Al contrario, ha esaltato il ruolo fondamentale e di perno sociale della famiglia, facendo sue una serie di istanze tipiche dell’ambiente cattolico pre e post Dc, ripetendo slogan già sentiti da personaggi quali la Binetti, quali Rutelli, quali Casini, quali esponenti della Chiesa “moderati” o “progressisti”.

Ha incentrato la sua proposta di welfare non sulla fiscalità a favore della “piccola e media impresa”, mantra ripetuto ossessivamente dai liberisti di Forza Italia, dai padroncini leghisti e dai prodiani e diessini del nuovo affarismo finanziario, ma ha concentrato le sue richieste a favore delle famiglie numerose, sulle detrazioni e gli incentivi per i figli, su, come l’ha chiamato lui, l’ammortizzatore sociale di una famiglia centro di una fiscalità e di una politica dello sviluppo che rivoluzionerebbero (in senso, si badi, conservatore!) tutto quanto, bene o male, costruito dagli ultimi 5 governi.

E non a caso l’unico politico, anzi, gli unici politici che ha citato per nome e cognome in senso positivo sono due esponenti dell’UDC, Casini e Vietti, il primo suo predecessore alla Camera, ed il secondo neonominato vicepresidente del CSM.

La sua rinuncia (almeno temporanea, almeno in questa legislatura, pare di capire) alle questioni della laicità è propedeutica alla creazione, a nostro avviso, NON di un “terzo polo”, ma di un’area di attrazione gravitazionale di forte stampo social-cattolico che possa essere in grado di compattare, su specifici e condivisi fattori, voti e consensi provenienti da quasi ogni partito, senza per forza dover essere d’accordo su tutto, ma in vista di un rimescolamento post missino, post AN e post democristiano, anche a costo di gettare al macero qualche battaglia del passato e di tornare con naturalezza alla Destra Sociale.
Non scordiamoci infatti che Fini si era distinto dalla sua maggioranza in due clamorose occasioni: la legge 40 e il “caso Englaro”. Sulla legge 40, quella della procreazione assistita, aveva votato contro, e, coerentemente, si era schierato per il “sì” nel referendum abrogativo, mentre, dall’altra parte, Rutelli, per fare un esempio, aveva votato a favore della legge voluta da Berlusconi e poi si era schierato per l’astensione al referendum. Di tutto questo, a Mirabello, non si è parlato.

Sottolineare queste, proprio queste, differenze, avrebbero lasciato Futuro e Libertà in una sorta di limbo isolazionista, incapace di essere centro, impossibilitato ad essere destra, assolutamente contrario all’essere sinistra.
Fini, con grande acume politico, ha deciso di richiamarsi a ciò che più accomuna Fli a quell’area di attrazione che accennavamo prima, trascurando, studiatamente, ciò che divide. E se ciò che divide è il fattore laicità, esso può essere strumentalmente e tranquillamente accantonato, anche e forse soprattutto quando i giornali cattolici come Avvenire e Famiglia Cristiana si trovano in pieno e rumoroso contrasto con Berlusconi e la sua stampa personal, e e la Lega.

L’ulteriore grande fronte sul quale Fini ha aperto il confronto, è quello della “giustizia”, dando fiato (e sicuramente attirandosene la simpatia) a molti principi generali che tanto cari sono all’area di sinistra e anche dipietrista, quelli della “giustizia uguale per tutti”, della distorsione del concetto di immunità che sfocia nella impunità, fino ad un codice etico che escluda i condannati, e i compromessi, dalle cariche elettive. E con bordate sparate direttamente a Berlusconi e a Ghedini, e alle loro “leggi ad personam”. Concetti sani e in effetti incontestabili, ma, con perfetta virata democristiana, e con un recupero a destra tanto per non chiudere le porte a nessuno, concetti moderati, diremmo costretti da un paio di parametri-appelli: quello all’approvazione di un nuovo “lodo Alfano”, stavolta persino come norma costituzionale (altro richiamo al parlamentarismo: “chi ci sta? Siamo abbastanza?”) e quello della lontananza dalla piazza: “non si può pensare di far fuori Berlusconi per via giudiziaria”.

Tutto il resto: l’immigrazione, il federalismo, lo scontro con la Lega, l’analisi della storia politica del PDL, la sua vicenda personale ed il suo scontro con l’apparato berlusconiano, la quasi conseguente critica alla situazione della stampa italiana, per quanto fortemente caratterizzanti, rientrano nella dialettica di un movimento nascente, o rinascente, libero dai “colonnelli e capitani” con il suo passato remoto e recente e con il suo, per adesso ancora in costruzione, presente.

Merito di Fini è, anche in questo caso, proporre un programma (decisamente più chiaro e meno contraddittorio di quello di tanti partiti apparentemente solidi e costruiti) e di dire ancora una volta: “chi ci sta?”, calcando sulla sua appartenenza e vocazione al centro destra, “senza cambi di campo, senza ribaltoni o ribaltini, senza atteggiamenti che possano dare la sensazione agli italiani che abbiamo raccolto voti da una parte per poi portarli dall’altra, senza tradire spirito e origine del (per ora) defunto PDL“.