di Marco Ottanelli
A qualche giorno dalle elezioni presidenziali e parlamentari USA, può risultare utile analizzare qualche dato e tentare un confronto con quelli del 2008, che furono oggetto di un nostro precedente articolo.
Partiamo innanzitutto dalla partecipazione al voto, uno dei punti nodali di ogni elezione americana, visto il loro peculiare sistema di registrazione degli elettori, e visto che tutti gli osservatori hanno sempre individuato in questo elemento uno dei fattori principali da considerare nel successo o insuccesso di un candidato.
Il primo dato, quello se vogliamo palese, è che Barack Obama ha ottenuto la rielezione, ma il suo non è stato il trionfo di quattro anni fa, come forse è normale per un secondo mandato.
Nonostante non esista alcuna agenzia federale preposta al calcolo di votanti ed astenuti, e nonostante i dati definitivi del farraginossisimo conteggio delle schede saranno disponibili solo tra alcune settimane, Curtis Gans, diretore dell’ American University’s Center for the Study of the American Electorate ha fornito queste percentuali:
affluenza 2012: 49%
affluenza 2008: 57,48%
con un calo quindi di quasi il 9% sugli aventi diritto.
In termini assoluti, nel 2012 hanno votato 122 milioni e 800 mila di persone contro i 131 milioni e 400 mila del 2008. Otto milioni e mezzo di astenuti in più.
Segno di una certa disaffezione, ed in particolar modo di disaffezione da parte di quella maggioranza di popolazione che negli USA definiscono “caucasica”, cioè bianca. Sono stati infatti quelli delle minoranze (neri ed ispanici in particolare) gli unici gruppi che hanno incrementato la partecipazione al voto.
I “voti elettorali” assegnati, ottenuti dai due contendenti (non che fossero i soli: i candidati presidenti erano molti!)((Oltre a Romney per il Partito Repubblicano e a Obama per il Partito Democratico, hanno concorso alla carica di Presidente degli Stati Uniti d’America anche: Gary Johnson per il Partito Libertario; Jill Stein per i Verdi; Virgil Good per il Partito della Costituzione; Rocky Anderson per Partito della Giustizia.)) sono stati, per Barack Obama: 332; per il suo avversario: 207
Nel 2008 erano stati, rispettivamente, 365 e 173. Il sistema elettorale statunitense prevede che l’elezione del presidente sia determinata dagli stati, non dagli elettori. Questo per rimarcare il carattere di federazione di repubbliche che compongono, appunto, gli Stati Uniti. Ogni stato assegna in blocco tutti i propri voti elettorali (che sono la somma del numero senatori – quindi due, fissi- più il numero dei rappresentati che tale stato esprime- quindi variabile rispetto alla popolazione residente) al candidato che ottiene il maggior numero di voti nel suo territorio, salvo il Maine ed il Nebraska, che prevedono una eventuale suddivisione dei propri voti elettorali.
Obama ha quindi perduto alcuni stati dell’Unione. Il Nord Carolina e l’Indiana, nello specifico. Ma, mantenendo il controllo dei piccoli stati del New England, e dei potenti New York, Illinois, Florida, Hoio, California, Pennsylvania e Michigan, ha ottenuto la vittoria in 26 stati ed i voti elettorali necessari. Romney, 24 stati, con il solo Texas (ben 38 voti) come stato considerevole dalla sua, non ha avuto partita.
A questo punto, è importante sapere ed analizzare quanti voti popolari Obama è riuscito ad intercettare, dato che essi esprimono il gradimento dei suoi cittadini, il loro giudizio. I dati sono i seguenti:
nel 2012, Obama è stato votato da 61.939.115 persone, il 50,53%
nel 2008, aveva raccolto 69.499.428 consensi, il 52,87%
Il suo diretto concorrente attuale, Romney, ne ha avuti 58.651.571, mentre McCain ne ebbe 59.950.323.
Perdere otto milioni di voti, tanti quasi quanto i “nuovi astenuti”, dovrebbe essere un segno, per il democratico Obama: evidentemente non sono solo i miliardari e gli assicuratori coloro che non lo hanno votato.
Ma anche i repubblicani hanno preso meno voti, in assoluto, il che ha permesso comunque una larga vittoria in termini di voti elettorali e seggi parlamentari.
Per poter avere la visuale completa del risultato, è necessario guardare anche alle elezioni per Camera dei Rappresentati e Senato.
Ricordiamo che, nel 2008, il partito democratico aveva raggiunto un risultato storico: con l’elezione del presidente, aveva conquistato la maggioranza dei seggi in entrambi i rami del parlamento, cosa niente affatto scontata negli USA, anzi.
E ricordiamo che già nelle middle term election del 2010 i repubblicani avevano riconquistato la Camera.
Obama quindi ha iniziato la sua storia da Presidente con un consenso popolare notevolissimo tradottosi in un controllo saldo sul Parlamento; ha subito una certa battuta d’arresto a metà del primo mandato, ed un secondo segnale adesso.
Seggi 2008 | Seggi dal 2010 | Seggi 2012 | ||
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Partito Democratico | Camera rappresentati((Il numero dei rappresentati è variabile, alcuni seggi non sono stati ancora assegnati, ed anche in questo ramo del congresso siedono alcuni indipendenti)) | 255 | 193 (+3 vacanti) | 197 probabili |
Senato federale1 | 57 | 51 | 53 | |
Partito Repubblicano | Camera rappresentati | 179 | 242 (+2 vacanti) | 234 probabili |
Senato federale | 41 | 47 | 45 |
Insomma, gli americani, anche tramite i diversi sistemi elettorali per le due ali del Congresso (è da tener presente che il Senato rappresenta gli stati, non la popolazione, e infatti ha competenze specifiche sulla politica estera, ad esempio), se hanno rafforzato l’amministrazione Obama in una, l’hanno mantenuta debole (nonostante qualche seggio in più) nella seconda, che è quella oltretutto più sensibile ai bisogni più immediati dei cittadini, bisogni (lavoro, salari, crisi economica) che sono stati al centro della campagna elettorale e che saranno al centro della politica prossima ventura del paese. In termini di seggi totali, si può parlare di vittoria, certo.
Ma che ci sia stata una tendenziale inclinazione dell’elettorato verso destra, è un dato di fatto, anche se la bocciatura di certi fanatici oltranzisti e la vittoria dei referendum progressisti (dei quali parleremo in un altro articolo prossimo venturo) ha dimostrato che il tea party e tutti i più feroci conservatori non hanno avuto nessuna presa decisiva sull’elettorato.
Dando una occhiata ai grafici pubblicati dai giornali statunitensi, si ha un immediato impatto visivo di dove e quanto sia concentrato il consenso ai democratici. Ci permettiamo di mostrare due mappe del New York Times, che sono esaustive.
La prima mostra gli USA suddivisi per contee, le unità amministrative locali. Come si vede chiaramente, il blu che indica la prevalenza del voto democratico è collocato lungo le periferie, i confini stessi del grande territorio degli USA: la costa pacifica, il New England, e le zone accanto alle frontiere messicana e canadese; e poi, quell’immenso cuore rosso-repubblicano, che spazia da est ad ovest e da nord a sud, come un segno tangibile della vastità del pensiero e della distanza, a volte impressionante, che corre, materialmente e politicamente, socialmente, tra le sconfinate pianure del Mid West (per Romney) e le grandi metropoli della costa (per Obama). NB: anche l’Alaska è repubblicano.
La seconda mappa è quella del cambiamento tendenziale del voto, contea per contea. Tanto più lunghe sono le freccette rosse, tanto più intenso è stato lo spostamento del corpo elettorale dall’area democratica a quella repubblicana. E come appare evidente, è proprio nelle zone dove Obama ha vinto, ed in particolare nel suo Illinois e negli stati confinanti, quelli delle grandi industrie, della grande fascia proletaria, che questa tendenza è stata più pronunciata, ed intensa. E di fatto, sono molti gli stati dove la vittoria dei democratici, e quindi la conquista dei voti elettorali, è giunta per un soffio, per percentuali minime, per scarti risibili (in Florida è stato dello 0,87% appena!). Non solo il cuore, ma anche la pancia degli Stati Uniti, dunque, si è spostata verso una destra forse razionale e moderata, sì, ma sicuramente non obamiana, e si è spostata dalle lontane Haway, passando per la California e le progressiste regioni pacifiche, dai Grandi Laghi e fino all’estremo nord del Maine. Pur mantenendo la prevalenza dei democratici, sia chiaro. Solo che il margine tra i due contendenti si è ridotto.
In conclusione, il secondo mandato, è quello che da al Presidente una grande possibilità di manovra personale: non può essere rieletto, quindi non teme né l’impopolarità dei suoi progetti, né il tatticismo dei lobbisti e dei funzionari politici. Ma, per motivi perfettamente speculari, è anche il quadriennio delle grandi responsabilità nei confronti del partito, che dovrà affrontare un futuro determinato dalla scelte dell’amministrazione in carica, e del paese stesso, al quale è necessario dare una direzione precisa, percorribile e solida, che vada ben oltre il 2016. Bush fallì proprio in questo, sfiancando l’America ed il suo stesso elettorato e lasciano macerie economiche e sociali. Barack Obama, che deve guidare la nazione in un periodo di grandi cambiamenti interni ed internazionali, ha la opportunità di compiere grandi imprese, come annunciate nel suo programma.
13 novembre 2012
- Il Senato è composto da 100 membri. La somma dei repubblicani+democratici dà 98, perché in esso siedono anche due senatori indipendenti, oggi uno del Vermont ed uno del Maine. [↩]