nella foto: Lidia Poët, la prima avvocata italiana (superò l’esame nel 1883 ma le fu concessa l’abilitazione solo nel 1920)
di Massimo Niro
Ha suscitato un certo interesse negli organi di informazione, anche nella stampa quotidiana, un documento redatto dall’Accademia della Crusca nello scorso mese di marzo, in risposta al quesito posto dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e relativo alla “scrittura rispettosa della parità di genere negli atti giudiziari”. Quesito apparentemente tecnico, che riguarda principalmente gli operatori del settore giuridico e giudiziario: tuttavia, nota correttamente l’Accademia fiorentina che la questione è “molto sentita e molto attuale, tocca la quotidianità di chi lavora nei settori del diritto, dell’amministrazione della giustizia, della burocrazia delle istituzioni pubbliche, e interessa tutti i parlanti attenti a un uso della lingua che sia rispettoso delle differenze di genere”. Di qui la decisione della Crusca di pubblicare integralmente la sua risposta al quesito posto dall’organo giudiziario, decisione che pare molto opportuna e contribuisce a rendere accessibile a tutti, non solo agli studiosi di linguistica e di diritto, un parere che riguarda comunque l’uso della lingua italiana negli atti giuridici e giudiziari nel rispetto della parità di genere.
Nella sua densa premessa l’Accademia sottolinea che un “addestramento costante serve per un uso della lingua attento alla prospettiva di genere” e, inoltre, osserva acutamente che le tematiche introdotte nella lingua italiana negli anni ’80 da Alma Sabatini risentivano della “cultura femminista del suo tempo”, che “faceva riferimento in maniera esclusiva al rapporto tra donne e linguaggio, mentre oggi le rivendicazioni e le richieste di intervento si sono fatte più ampie, provenendo anche da parte di chi nega la tradizionale sistemazione binaria dei generi”. Dunque, va considerata datata e non universalmente valida la concezione della lingua secondo cui va rotta qualunque eventuale asimmetria che distingua il riferimento ai due generi, maschile e femminile, intesa come “discriminazione”: ciò in quanto “I principi ispiratori dell’ideologia legata al linguaggio di genere e alle correzioni delle presunte storture della lingua tradizionale non vanno dunque sopravvalutati, perché sono in parte frutto di una radicalizzazione legata a mode culturali”. Nel concludere la premessa gli Accademici fiorentini rilevano che “va tenuta distinta la libertà della lingua comune nel suo impiego individuale, nella varietà degli stili e delle opinioni, dall’uso formalizzato da parte di organismi pubblici”, nel quale ultimo rientra anche l’uso giuridico, che è oggetto del parere in questione.
Passando al parere vero e proprio fornito dall’Accademia della Crusca, esso si compone di una serie di “Indicazioni pratiche”, con le quali l’Accademia risponde in forma sintetica al quesito sottoposto dal Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione. Indicazioni pratiche, quindi una sorta di vademecum da seguire da parte degli operatori del diritto: secondo un “approccio squisitamente tecnico” prescelto dalla Crusca, coerentemente del resto con il suo ruolo e il suo prestigio istituzionale nel campo linguistico1. La prima indicazione è volta ad “evitare le reduplicazioni retoriche”, in base al principio della concisione che dovrebbe ora caratterizzare il linguaggio giuridico, così da “limitare il più possibile interventi che implichino riferimento raddoppiato ai due generi…” (del tipo “lavoratori e lavoratrici, cittadini e cittadine, impiegati e impiegate” etc.). Per evitare queste “reduplicazioni” l’Accademia consiglia di scegliere “altre forme neutre o generiche, per esempio sostituendo persona a uomo, il personale a i dipendenti ecc. “, rilevando che “Quando questo non sia possibile, il maschile plurale inclusivo (a differenza del singolare) risulta comunque accettabile”. Infatti, si ricorda in seguito nel parere che la nostra Costituzione repubblicana parla di “cittadini”, senza reduplicare “cittadini e cittadine”, ma “intendendo che i diritti dei cittadini sono anche quelli delle cittadine”. La seconda indicazione riguarda l’ uso dell’articolo con i cognomi di donne: qui si osserva che “Oggi è considerato discriminatorio e offensivo non solo per il femminile, ma anche per il maschile”. Al riguardo la Crusca reputa che questa opinione sia scarsamente fondata, tuttavia tale opinione “si è diffusa nel sentimento comune, per cui il linguaggio pubblico ne deve tener conto” (questa considerazione è interessante perché evidenzia come l’Accademia dia grande importanza all’uso comune della lingua, che influenza la lingua scritta). Va, pertanto, omesso l’articolo anteposto al cognome, sia nel femminile che nel maschile, con la precisazione che “quando sia utile dare maggiore chiarezza al genere della persona, sarà sufficiente aggiungerne il nome al cognome, o eventualmente la qualifica” (‘La presenza di Maria Rossi’ o ‘La presenza della testimone Rossi’).
La terza indicazione fornita attiene alla “esclusione dei segni eterodossi e conservazione del maschile non marcato per indicare le cariche, quando non siano connesse al nome di chi le ricopre”. L’Accademia fiorentina fa una premessa metodologica molto importante, che è la seguente: “La lingua è prima di tutto parlata, anzi il parlato gode di una priorità agli occhi di molti linguisti, e ad esso la scrittura deve corrispondere il più possibile”. Da ciò consegue che “E’ da escludere nella lingua giuridica l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato, introdotti artificiosamente per decisione minoritaria di singoli gruppi, per quanto ben intenzionati”: Va dunque escluso tassativamente l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico (Car* amic*…) . Parimenti va escluso, tassativamente, lo scevà o schwa, che “rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue, non presente in italiano, ma utilizzata in alcuni dialetti della Penisola…”. La ragione di questa esclusione è, secondo la Crusca, che “La lingua giuridica non è sede adatta per sperimentazioni innovative minoritarie che porterebbero alla disomogeneità e all’idioletto”. Invece, In una lingua come l’italiano, che ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, “lo strumento migliore per cui si sentano rappresentati tutti i generi e gli orientamenti continua a essere il maschile plurale non marcato, purchè si abbia la consapevolezza di quello che effettivamente è: un modo di includere e non di prevaricare”. Parimenti si potrà usare il maschile non marcato “quando ci si riferisca in astratto all’organo o alla funzione, indipendentemente dalla persona che in concreto lo ricopra o la rivesta…” cfr. art. 89, II c., Cost.). D’altra parte, l’Accademia della Crusca evidenzia che il maschile non marcato è ben vivo nella lingua nell’uso comune es. “Tutti pronti ?”, “Siete arrivati tutti ?”, etc.) e la sua utilizzazione è in questi casi inevitabile: diversamente si verificherebbe il paradosso di dover rivedere tutti i testi scritti italiani, compresi quelli giuridici, a cominciare dalla Costituzione repubblicana del 1948 (che, come sopra richiamato, parla di “cittadini” e non di “cittadini e cittadine”). La quarta indicazione è per un “Uso largo e senza esitazioni dei nomi di cariche e professioni volte al femminile”: infatti, secondo la Crusca “Si deve far ricorso in modo sempre più esteso ai nomi di professione declinati al femminile”, da ricavarsi con l’applicazione delle “normali regole di grammatica”. Quindi, passando in rassegna le “diverse classi di nomi” esistenti nella lingua italiana, si osserva dall’Accademia che i nomi terminanti al maschile in -o hanno il femminile in -a (es. magistrato/magistrata, avvocato/avvocata, etc.), i nomi terminanti in -e non suffissati sono “ambigenere”, cioè possono essere sia maschili che femminili e affidano l’indicazione del genere all’articolo (es. il presidente/la presidente, il giudice/la giudice, etc.).
L’osservatore più attento noterà che quest’ultima indicazione degli Accademici non è in linea con la scelta linguistica dell’attuale Presidente del Consiglio italiano, On. Giorgia Meloni, che ha chiesto di essere indicata nei documenti ufficiali come “il presidente”2. Ancora, con riferimento ai “nomi suffissati”, si osserva che il suffisso -iere al maschile è al femminile -iera (es. cancelliere/cancelliera), il suffisso -tore al maschile è normalmente al femminile -trice (ess. rettore/rettrice, procuratore/procuratrice), ma con alcune eccezioni (questore/questora, dottore/dottoressa) ; il suffisso -sore al maschile è al femminile -sora es. difensore/difensora), ma con l’eccezione di “femminili ormai acclimatati” come professore/professoressa .
Con riferimento, infine, ai “nomi composti” (composti con vice-, pro-, sotto-, sintagmi con vicario, sostituto, aiuto…), l’Accademia rileva che “conta il genere della persona che deve portare l’appellativo: se è donna andrà al femminile secondo le regole del sostantivo indicante il ruolo, se è uomo andrà al maschile, senza considerare il genere della persona di cui è vice, vicaria/vicario, sostituta/sostituto” (ess. Prosindaco/prosindaca ; sostituto procuratore/sostituta procuratrice). Pubblico Ministero al maschile diventa, al femminile, Pubblica Ministera non suona molto bene, ma forse perché l’uso al femminile è ad oggi assai raro).
In definitiva, questo documento dell’Accademia della Crusca è molto interessante e dice molto sulle caratteristiche e l’evoluzione della nostra lingua, anche oltre lo specifico ambito giuridico che ne costituisce l’oggetto. Il tema della lingua, parlata e scritta, non è molto discusso e invece dovrebbe essere maggiormente approfondito e divulgato, oltre la ristretta cerchia degli studiosi e degli specialisti, in un Paese come il nostro che ha una tradizione e un patrimonio linguistico così rilevante.
Va dato merito, dunque, al Comitato Pari opportunità del Consiglio direttivo della Corte di Cassazione di aver posto un quesito siffatto all’Accademia della Crusca, dando modo a quest’ultima di fornire indicazioni preziose non soltanto per gli operatori giuridici, ma per tutti i cittadini “attenti a un uso della lingua che sia rispettoso delle differenze di genere” ( come evidenziato dalla stessa Accademia e ricordato in apertura di questo scritto). Non è un caso, probabilmente, che la sollecitazione sia venuta da un organo giudiziario come la Corte di Cassazione, in cui la presenza femminile è progressivamente in aumento e suggellata dalla recente nomina di una donna, Margherita Cassano, a Primo Presidente della Corte, per la prima volta nella storia italiana.
- cfr., in questo senso, C. Morelli, Linguaggio giuridico fair: il femminile tutte le volte che è grammaticalmente corretto, in www.altalex.com, 27 marzo 2023 [↩]
- parla efficacemente di “bocciatura” della scelta linguistica della premier Meloni C. Morelli, op. cit. [↩]