di Gabriele Pazzaglia
L’8 maggio 2013 il Presidente del Popolo della Libertà, uno dei partiti della maggioranza di governo, è stato condannato anche in appello a 4 anni di reclusione (di cui 3 indultati), e a 5 anni di interdizione dai pubblici uffici, per evasione fiscale.
Anche questa volta, come fu in primo grado, appena è stata emessa la condanna è immediatamente partita una girandola di dichiarazioni che qualificavano la sentenza come «persecutoria», «assurda» ed un ex ministro l’ha anche definita «politica, anzi antipolitica» (?).
Tali qualificazioni semplicistiche sono sempre sbagliate, a prescindere. Non perché le sentenze non debbano essere sottoposte a critica (anzi, le sentenze sono, per regola costituzionale, art. 111, sempre motivate proprio perché tale motivazione sia valutata), ma affinché una critica valga qualcosa si deve entrare nel merito, cioè conoscere il percorso logico con il quale il giudice ha applicato le norme ai fatti. E si devono individuare nel ragionamento gli eventuali punti di fragilità: o perché il giudice reputa avvenuti fatti non provati (o viceversa), o perché le norme sono mal interpretate. Nessuno degli esponenti politici vicini a Berlusconi, ci risulta, ha fatto ciò. Né questa volta, visto che le motivazioni d’appello non sono state ancora scritte ma saranno depositate tra circa 15 giorni, né quando venne emanata la condanna di primo grado: infatti, benché allora il collegio avesse depositato le motivazioni insieme alla dichiarazione di condanna (proprio per evitare ricostruzioni inventate di sana pianta e permettere sin da subito il controllo del proprio operato da parte dell’opinione pubblica), dopo poche ore già circolavano molte qualificazioni negative dell’operato dei giudici da parte di esponenti del centrodestra: difficile pensare che tali secchi giudizi, poco più che slogan, fossero la ragionata valutazione conseguente alla lettura delle circa cento pagine di motivazioni (qui il testo della sentenza di 1° grado).
L’accusa e la condanna
Per capire possiamo (e dobbiamo) partire dall’accusa: Berlusconi era imputato (insieme ad alcuni suoi collaboratori) del reato di “Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”((Tecnicamente si tratta del Decreto legislativo 74/2000 , decreto di riferimento degli illeciti tributari che all’art 2 prevede che «È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi passivi fittizi».)). Per capire di cosa si tratta bisogna aver presente che il reddito, su cui si calcolano le imposte, per le aziende non è altro che la differenza dei ricavi e dei costi. Ecco, per diminuire il reddito (e quindi le imposte) ci sono due metodi: o si nascondono dei ricavi o si fa finta di aver sostenuto costi mai esistiti. E quest’ultimo era il comportamento illecito che veniva rimproverato a Berlusconi (in quanto proprietario di Mediaset): quello cioè di aver inserito nella propria dichiarazione dei redditi «elementi passivi fittizi», cioè costi mai sostenuti, giustificandoli con «fatture per operazioni inesistenti».
Secondo l’accusa Berlusconi aveva messo in piedi un sistema che consentiva la diminuzione del reddito, e quindi delle imposte dovute, grazie all’utilizzo di una serie di società estere. Ciò avveniva in quattro passaggi: prima di tutto i diritti di trasmissione di prodotti televisivi di major americane venivano acquistati da parte di società estere (diverse da Mediaset ma riconducibili a Berlusconi) situate in paradisi fiscali (generalmente le British Virgin Islands); il diritto passava, poi, ad altre società con trasferimenti «privi di giustificazione commerciale ma comportanti rilevanti aumenti di prezzo». Terzo passaggio era il frazionamento del periodo di utilizzo di tali diritti «finalizzati a rendere maggiormente difficoltosa la comparazione dei prezzi dei suddetti passaggi infragruppo», infine la concentrazione di tutti i diritti in una società maltese che li trasferiva a Mediaset permettendo a questa di inserire in bilancio un costo superiore di quello che avrebbe registrato se avesse acquistato direttamente dal fornitore americano. (pag. 11). Il risultato finale era quindi una diminuzione delle imposte dovute perché, in sostanza, Mediaset “spostava” parte del suo utile dall’Italia ad un paradiso fiscale che, proprio perché paradiso fiscale, prevedeva il pagamento di un’imposta molto minore.
E questo meccanismo, sosteneva l’accusa, ha portato a falsificare le 3 dichiarazioni dei redditi oggetto del processo con la conseguenza di sottrarre al fisco 6,6 milioni di € nel 2001, 4,9 milioni nel 2002 e 2,4 milioni nel 20031(anni nei quali Berlusconi era Presidente del Consiglio).
Il Tribunale, ha dovuto dichiarare la prescrizione per quanto riguarda le dichiarazioni del 2001((Prescrizione che, per l’irrazionale regola italiana, continua a decorrere anche dopo l’inizio del processo ma che, ricordiamolo, è rinunciabile: ed è sempre deprecabile l’uomo politico che si nasconde dietro questo cavillo.) ed ha, invece, riconosciuto fondata accusa per le dichiarazioni dei redditi del 2002 e 2003 stabilendo in 7,3 milioni di euro l’imposta evasa (condannando Berlusconi al pagamento di 10 milioni di euro di danni all’Agenzia delle entrate, importo che potrebbe aumentare se si svolgerà il giudizio civile che dovrà stabilire la cifra precisa).
La sentenza adesso è appellabile solo in Cassazione la quale (come sempre) non dovrà decidere di nuovo nel merito ma solo valutare se nel processo di secondo grado sia stata per caso violata una norma o se la motivazione è illogica. Qualunque sarà la decisione di ultimo grado ciò che è rilevante, secondo noi, non è tanto l’esito del processo in sé, quanto i fatti fino ad ora emersi.
La motivazione della sentenza. Due sistemi.
Il Tribunale ha differenziato due periodi: dalla metà degli anni ’80 fino al 1995/6 e, da questo, fino al 2003 . Lo spartiacque è la quotazione di Mediaset in borsa, avvenuta appunto nel 1996, che ha reso necessario, sempre secondo il Tribunale, una modifica del meccanismo di fatturazione.
L’unico periodo che, ai fini del processo appare rilevante a colpo d’occhio è il secondo, dal 1995/6 in poi. Si arriva a questa data per un motivo tecnico: tutte le aziende, quando acquistano un bene che dà utilità per più anni (come l’arredamento, un brevetto o un film), per legge, devono ammortizzarlo, cioè frazionare il costo e “rimandarlo” (e contabilizzarlo) negli anni successivi. Quindi, dato che, sempre per legge, l’ammortamento in questione è di 5 anni, diventa rilevante il quinquennio precedente alla prima delle dichiarazioni in questione. Quindi dal 2001 si arriva fino al 1996.
I fatti. Il primo periodo: metà anni ’80 – 1996
Secondo il Tribunale il meccanismo che permetteva di portare parte degli utili di Mediaset in un paradiso fiscale è confermato da vari elementi. Il primo e forse il più rilevante, è una email del 12/12/1994 inviata da un dipendente della Twenty Century Fox ad un suo superiore nel quale si racconta del sistema in questione. Ma come fa questo tizio a conoscerlo? Tutto comincia con un problema di liquidità di Mediaset che, all’inizio degli anni ’90, aveva difficoltà a farsi pagare dagli inserzionisti pubblicitari con il risultato di avere a sua volta difficoltà a pagare le major dalle quali acquistava diritti televisivi. Ma queste potevano chiedere il pagamento solo alle società off-shore, visto che formalmente a loro avevano venduto: di qui il timore di essere truffati, di rimanere con il classico pugno di mosche in mano.
Risultato: affinché le major continuino a fare credito, si rende necessario un incontro chiarificatore che, secondo i giudici, servirà per spiegare che il meccanismo non serviva a truffare i creditori ma ad evadere le tasse italiane. Bernasconi, all’epoca dei fatti prima Presidente di Reteitalia e poi di Mediaset, autorizza quindi una altra persona, Pugnetti, dell’ufficio acquisti, ad incontrare un contabile della Fox (Schwalbe Douglas), il quale invia ad un suo superiore l’email in questione raccontando l’incontro. E nell’email, tra l’altro, si legge:
Mi sono incontrato con Guido Pugnetti […] Quando gli ho fatto pressioni per il milione di dollari che mi doveva da 90 giorni mi ha spiegato quanto segue: […]In due parole l’impero di Berlusconi funziona come un elaborato shell game [una sorta di gioco delle 3 carte nda]. E’ un gioco che consiste nel prendere tre gusci di noci vuoti e nascondere sotto uno di essi il nocciolo di una ciliegia. Chi gioca deve indovinare dove il nocciolo è stato nascosto”- con la finalità di evadere le tasse italiane.[…] (per il testo integrale dell’email, pagg 3 e 4 nota 2).
Le altre prove, secondo i giudici, confermano tutto questo. Pugnetti stesso, sentito come testimone, si legge nella sentenza, racconta che, quando la situazione debitoria non gli permetteva più di agire nel mercato dei film, perché «qualsiasi distributore, prima ancora di proporre un prodotto, chiedeva il saldo», decise di parlarne con il suo superiore, Bernasconi, al quale espose ciò che aveva intuito sulla funzione di queste società estere e la necessità di spiegarlo alla Fox per rassicurali. E questo gli rispose «sì, è così, vai e spiegaglielo». Di qui l’incontro e la successiva email. (per la trascrizione integrale della testimonianza pag 4 e 5 nota 8).
Altra conferma arriva da un’altra dipendete di Mediaset, Cavanna (pag 5), che all’epoca operava nell’ufficio gestione e contratti: spiega, tra l’altro, che Mediaset faceva contratti anche con le altre società del gruppo in modo di essere in regola con la messa in onda. E se, generalmente ciò avveniva poco prima che il prodotto fosse utilizzabile, c’erano anche casi in cui questo avveniva in momenti diversi: «se avevano bisogno di soldi», dice la testimone che, su richiesta del PM specifica: «a Lugano per pagare i fornitori e in Italia di costi», proprio quei costi che secondo il Tribunale sono stati inventati. Per completezza, riportiamo la parte rilevante della testimonianza:
PM: Senta. per quanto riguarda poi questa indicazione di redigere i contratti,[…] Lei ha detto inizialmente che questo si faceva nei casi in cui il diritto entrasse in decorrenza [cioè utilizzabili nda] da lì a poco.
CAVANNA: Poco prima. in modo da essere in regola con la messa in onda.
PM: C’erano anche dei casi, per così dire straordinari, in cui si facevano contratti di acquisto di periodi che non erano, diciamo, imminenti di decorrenza?
CAVANNA: Be’, sì, se avevano bisogno di soldi, certo, si faceva noi contratti e il tutto dipendeva da un discorso che veniva fatto da Bernasconi con Tronconi… [responsabile amministrativo-contabile prima di Reteitalia e poi di Mediaset nda]
PM: Scusi, signora, per cortesia. Lei ha detto “se avevano bisogno di soldi “, chi?
CAVANNA: Cioè, Lugano, di soldi per pagare i fornitori, e in Italia di costi. [grassetto del Tribunale nda. Per la trascrizione integrale pag 6 nota 13]
L’ultimo punto è la riferibilità di queste società estere proprio a Berlusconi. La questione potrebbe benissimo non essere nemmeno affrontata visto che, come è ricordato nella sentenza, il fatto che queste società fossero proprio di Berlusconi è stato definitivamente accertato dalla Cassazione nel processo Mills((Sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n.15208/10, emessa il 25.2.2010 nel processo per corruzione in atti giudiziari Berlusconi-Mills)) e il fatto non può più essere messo in discussione. Comunque, ad abundantiam , il Tribunale prende in considerazione un altro elemento: una relazione che una banca svizzera ha redatto quando ha acquistato la società di Mills((Si tratta della CMM – Carnelutti Mills Mackenzie – Corporate Services Limited, acquisita nel 1994 dalla società svizzera Edsaco.)), che fino a quel momento aveva gestito gli adempimenti fiscali delle società off-shore in questione. In questa relazione vi è l’elenco di queste società e vi è annotato che secondo una dipendente della società di Mills (Tanya Maynard), «le Società Fininvest “B” non sono necessariamente società appartenenti direttamente alla Silvio Berlusconi Finanziaria o al Gruppo Fininvest. Tali Società appartengono a Berlusconi, Bernasconi… ed a Silvio Gironi. L’avente diritto economico di queste Società sarebbero spesso l’uno o l’altro di questi signori».
Il secondo periodo: 1996 – 2001/03 .
Secondo i giudici con la quotazione in borsa di Mediaset il sistema non viene eliminato ma soltanto modificato: al posto dei «rapporti poco trasparenti» del primo periodo, incompatibili con gli standard della Consob (pag. 21) entrano in scena altri soggetti che però hanno la stessa funzione: una finta intermediazione per permettere di inserire in bilancio costi mai sostenuti.
Fra le tante operazioni analizzate dal Tribunale due ci sembrano quelle più rilevanti.
La Film Trading
Non è un caso che i giudici di primo grado inizino con questa società l’elenco dei rapporti in questione: si legge, a pagina 23 della motivazione che essi la ritengono «assolutamente sintomatica» del meccanismo utilizzato «per far decollare i costi di Mediaset»: questa Film Trading viene creata nel 1995 nel Principato di Monaco da un certo Giraudi, la cui segretaria, Adamo, ha rivelato essere stata fondata proprio dopo un incontro con Bernasconi (che abbiamo detto essere stato prima Presidente di Reteitalia e poi di Mediaset) ed aveva come oggetto sociale ufficiale l’intermediazione per l’acquisto di diritti televisivi tra le major americane e Mediaset stessa.
E per questo lavoro la Film Trading riceve da Mediaset (meglio: dalla società maltese che essa controlla), bonifici per 26,4 milioni di dollari tra il 1995 e il 1997; importo che viene poi versato, in parte, allo stesso proprietario Giraudi (4 milioni) e il rimanente su conti correnti alle Bahamas di tre società (Scarlett, Wolstein e Redmond) che secondo i giudici sono riferibili proprio a Berlusconi.
Sul punto è forse impossibile avere la prova provatissima perché, da quel che emerge nel processo, il nome dell’ex Presidente del Consiglio non ricorre. Probabilmente il Tribunale, nella sua deduzione, da valore al fatto che sui c/c di queste 3 società operano le stesse persone fisiche che operavano nella Arner, la stessa società, cioè, che gestiva le “vecchie” società off-shore (del periodo precedente alla quotazione in borsa di Mediaset), la cui riferibilità a Berlusconi non può più essere messa in discussione perché accertata con la sentenza Mills che, come abbiamo detto nella nota 3 è passata in giudicato. Solo una coincidenza? Possibile, ma non sarebbe l’unica visto che tra queste tre società e alcune delle “vecchie” off-shore vi sono altri elementi in comune: alcuni rappresentanti iscritti nel registro delle imprese delle Bahamas (per quanto riguarda la Scarlett), bonifici (la Wolstein) o azionisti e amministratori (la Redmond).
E oltre a questi elementi, nel processo emerge anche che questa Film Trading era composta solo dal titolare e da due segretarie part-time (p62), che francamente appare poco realistico considerato il volume d’affari milionario della società, la repentina e immotivata chiusura nonostante realizzasse utili (p26). E poi, punto fondamentale, ci risulta che le difese non siano riuscite ad indicare una valida ragione economica che spieghi perché un’azienda come Mediaset, che già primeggiava nel suo settore e che già stipendiava «uomini di provatissima esperienza e introduzione» (p25), si sia rivolta e abbia pagato l’intermediazione di un commerciante di carni che, secondo la testimonianza della segretaria, «era totalmente inesperto in materia» (p54): messi insieme tutti questi elementi appare logico quindi che i giudici qualifichino questa società come una cartiera, che aveva cioè come unica funzione quella di produrre documenti che permettessero a Mediaset di contabilizzare costi non sostenuti con il risultato di spostare gli utili in paradisi fiscali.
Agrama: il socio occulto.
Ulteriore punto rilevante: i rapporti tra la società di Berlusconi e Frank Agrama (un imprenditore statunitense, di origine egiziana, attivo nella compravendita di prodotti televisivi). Quest’ultimo, secondo i giudici, non è un soggetto completamente fittizio, un burattino, come gli intestatari delle società off-shore del primo periodo, ma neanche, all’opposto, un libero ed estraneo imprenditore che vendeva un servizio di intermediazione con il gruppo di Berlusconi.
Agrama, come emerge dalla contabilità di Mediaset, ha ricevuto sui conti correnti delle sue società((la Wiltshire Trading di Hong Kong e la Melchers delle Antille Olandesi)), tra il 1994 e il 1998, 199,5 milioni di dollari per la vendita di diritti di trasmissione, a sua volta acquistati da major americane, con un guadagno di circa 135 milioni e un margine, effettivamente impressionate, di circa il 200%.
Secondo i giudici queste cifre sono irreali e sono un sintomo del fatto che questo Agrama fosse un «socio occulto» di Berlusconi (accusato infatti dello stesso reato), una persona, cioè, che apparentemente svolgeva una qualche attività terza, estranea, a Mediaset ma che in realtà era ad essa «sovrapponibile». E quindi, il suo inserimento nel rapporto tra le major e Mediaset aveva come scopo solo quello di trasferire utili in paesi con una tassazione molto minore dell’Italia con metodo della maggiorazione dei costi sostenuti.
Le difese, si legge nella sentenza, non hanno contestato gli importi in questione sostenendo, invece, che quei guadagni fossero la normale remunerazione per una reale intermediazione. Sostenevano cioè che i costi fossero sì alti, ma veri.
I giudici considerano Agrama, non un reale imprenditore, ma un mero rappresentante delle società di Berlusconi in base a questi elementi: innanzi tutto una serie di lettere dello stesso Agrama che, nel 2003 scrisse all’allora presidente di Fininvest (Bonomo) e al direttore della stessa (Messina) di «aver lavorato per le società del gruppo fin dal 1976 in qualità di loro rappresentante (grassetto del Tribunale nda), precisando che Fininvest non spende un centesimo di più acquistando per il suo tramite». Nel 2001 in una lettera agli stessi aveva espresso un concetto analogo specificando che «il prezzo non viene trattato da Agrama con i produttori americani, bensì direttamente dalle società di Berlusconi». (p40)
Lo stesso, poi, sembra deducibile dal prospetto che Mediaset ha fornito alla CONSOB per la quotazione in borsa dove si legge, tra l’altro:
Gli accordi con le major statunitensi sono volume deal che prevedono l’impegno da parte del Gruppo Mediaset ad acquistare, e il corrispondente impegno della major a vendere i diritti televisivi in esclusiva….(p41)
Anche la documentazione fornita dalla Paramount sembra andare nella stessa direzione. Ad esempio in una lettera del 1992 tra il vicepresidente della società (Lucas) e il direttore vendite di Londra (Cary) a proposito di una società di Agrama si scrivono che «quando succede che il cliente è Berlusconi è straordinariamente importante che il servizio sia perfetto» Come se l’azienda fosse sua. (p41). E l’anno successivo, il 1993, quando le società di Berlusconi hanno problemi di liquidità, Agrama concorda una rateizzazione del debito che, emerge da una sua lettera del 1994, sia «gradita a Carlo Benasconi».
Infine, anche le testimonianze sembrano andare nella stessa direzione: Il direttore generale Paramount Italia (Pedde) ha riferito che avrebbe voluto avere rapporti diretti con Mediaset ma che «non trovava un dialogo in questo senso con l’altra parte». Versione compatibile con quella del Vicepresidente di Paramount che ha detto che Mediaset «non ha mai fatto il primo passo». (p44)
La Conclusione alla quale arrivano i giudici è che a questo Agrama manca la libertà di «scelta del prodotto», manca il «rischio di invenduto» e non deve «anticipare il corrispettivo». Mancano insomma gli elementi che fanno di un imprenditore…un imprenditore, ed anche qui appare logico che i giudici ritengano che queste attività siano finte che, per questo, desumano che i relativi guadagni siano proprio il risultato dell’evasione fiscale.(p46)
Speriamo di aver fatto un chiaro, esaustivo ed obiettivo resoconto di una decisione giudiziaria. Ai lettori giudicarne il contenuto, anche leggendo il documento originale che è a disposizione. La nostra opinione è che, davanti ad elementi di questa gravità, in assenza della capacità di presentarsi davanti alla pubblica opinione entrando nel merito con un’argomentazione contraria precisa, un adeguato senso di responsabilità e dello Stato, a prescindere dagli esiti penali, imporrebbero di evitare manifestazioni in cui si strilla solo l’assenza di argomenti e di preferire, per salvaguardare la già provata cristallinità degli uffici pubblici, l’uscita dalla scena pubblica con un relativo e sano ricambio democratico.
- Questi importi, contenuti nel capo d’accusa, sono determinati dalla differenza tra il reddito dichiarato e quello ritenuto effettivo: seconda la Procura, infatti, Mediaset nel 2001 non avrebbe prodotto “solo” 503 milioni di utili ma 522. Così nel 2002, non 397 ma 410 e nel 2003 non 312 ma 320. [↩]